Ecologia-mondo e crisi del capitalismo

 18.00

Jason W. Moore

pp. 205
Anno 2023 (aprile)
ISBN 9788869482533

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Descrizione

Jason W. Moore
Ecologia-mondo e crisi del capitalismo
La fine della natura a buon mercato

Economia ed ecologia vivono la stessa crisi. Analizzando i modi in cui si sono combinati finanza, cibo, lavoro, energia e materie prime, Jason W. Moore mostra come la grande forza del capitalismo sia sempre consistita nella sua capacità di creare “nature” a buon mercato, integrando il lavoro umano e il cambiamento ambientale in modo dinamico ma distruttivo. In dialogo con la critica femminista, marxista e decoloniale, Moore interpreta la civiltà capitalistica come un’ecologia-mondo, una storia in cui si compongono insieme l’accumulazione del capitale, la ricerca del potere territoriale e la co-produzione della natura. Cartografandone le tappe storiche a partire dalla conquista dell’America nel 1492 e dalla cosiddetta accumulazione originaria, Moore individua nel xxi secolo il punto di non ritorno: ossia, la fine della natura a buon mercato. Cibo, energia, materie prime, lavoro costituiscono un tutt’uno sempre meno disponibile a basso costo. Pensare al lavoro-nella-natura invece che al lavoro e alla natura è una chiave per una politica radicale di liberazione: per gli essere umani e per la natura nel suo insieme. In questa prospettiva, le trasformazioni dell’uno e dell’altra sono dialetticamente connesse nella medesima rete della vita, nella loro svalutazione in atto, così come nella loro possibile sottrazione alle pratiche di appropriazione e di sfruttamento.
“Jason W. Moore ci sfida a ripensare completamente l’economia politica del metabolismo della vita sulla Terra e, in modo altrettanto importante, a trasformarlo radicalmente” (Christian Parenti, autore di Tropic of Chaos: Climate Change and the New Geography of Violence).

Con una prefazione inedita dell’autore e una nuova introduzione del curatore

Jason W. Moore, storico dell’ambiente e docente di sociologia presso l’Università di Binghamton negli Stati Uniti, è coordinatore del World-Ecology Research Network. Tra i suoi lavori più recenti: Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital (Verso, 2015), il nostro Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (2017) e, con Raj Patel, Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo (Feltrinelli, 2018).

Gennaro Avallone è professore associato di sociologia dell’ambiente e del territorio presso l’Università degli studi di Salerno.

Rassegna stampa

“il manifesto” – 20 luglio 2023

Jason W. Moore, disastro e «natura» a buon mercato
TEMPI PRESENTI. Tra i suoi libri, per ombre corte, «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo» e «Antropocene o Capitalocene?». Una intervista allo storico dell’ambiente e docente di Economia politica a Binghamton: «Il mio ecologismo si ispira a quello di contadini e lavoratori, alle loro lotte per la giustizia. La politica dominante è invece un ostacolo»
di Massimo Filippi

Jason W. Moore insegna Economia politica presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Binghamton negli Stati Uniti. Da una prospettiva marxista, Moore sta sviluppando da anni concetti essenziali per una comprensione trasformativa della crisi ecologica in atto. Tra questi, quello di «Capitalocene», per definire correttamente le responsabilità dei cambiamenti climatici, e quello di «ecologia-mondo», per indicare l’intersecarsi delle dinamiche sociali con quelle naturali. Dietro a tutto questo c’è la denuncia delle pratiche e dell’ideologia del capitalismo, che si è sempre alimentato di «natura a buon mercato» grazie all’invenzione di astrazioni reali, quali, soprattutto, quella di «Natura». La nuova edizione di Ecologia-mondo e crisi del capitalismo (a cura di Gennaro Avallone per i tipi di ombre corte [in queste pagine una recensione del 2015 e un’anticipazione alla ultima edizione del 2023, ndr] che ha pubblicato anche Antropocene o Capitalocene?, a cura di Alessandro Barbero ed Emanuele Leonardi [in queste pagine una recensione]) è stata all’origine della presente intervista, che tocca gli snodi fondamentali della riflessione del filosofo statunitense.

Che cosa è il Capitalocene?
Capitalocene è una provocazione che intende svelare l’atteggiamento ideologico della borghesia, il suo impegno ipocrita verso la «natura» e il suo rifiuto di chiamare le cose con il loro nome. Comprendere questa ideologia è cruciale per definire politiche adeguate di giustizia ambientale, per chiarire le relazioni storiche e materiali alla base della crisi climatica. Tali relazioni non sono tra l’Uomo e la Natura – che non sono termini innocenti, ma invenzioni del capitalismo. Il significato e la violenza materiale della crisi in atto sono emersi nel lungo XVI secolo e non hanno niente a che vedere con la natura umana. La crisi climatica non ha cause antropogeniche, ma capitalogeniche. E queste cause risiedono nelle relazioni di classe, nell’imperialismo e nell’accumulazione capitalistica realizzata a spese della rete della vita.

Perché il 1492 come data di inizio del Capitalocene?
Il 1492 è un’abbreviazione geostorica. Tra il 1450 e il 1750 si è sviluppata una rivoluzione del lavoro e del paesaggio inaudita quanto a vastità, velocità e scopi. Una rivoluzione paragonabile alla rivoluzione agricola dell’inizio dell’Olocene, che però si realizzò nell’arco di millenni. Ciò che il feudalesimo ha compiuto nel corso di secoli, per esempio la deforestazione dell’Europa, il capitalismo l’ha fatto in pochi decenni. Questa rivoluzione fu il prodotto e la causa di ciò che Marx chiama accumulazione originaria. Durante questo periodo si definirono nuovi rapporti di classe, un nuovo modo di produzione basato sull’accumulo infinito di capitale e nuovi rapporti di potere culturale, ideologico e militare. La rivoluzione nella produzione dell’ambiente condotta dal capitalismo è stata un enorme movimento di formazione delle classi e di lotta di classe.

Che cosa intende quando parla di capitalismo come ecologia-mondo?
Ecologia-mondo è un’altra provocazione. Con ecologia-mondo definisco i modi di produzione e riproduzione che si sviluppano dentro la rete della vita. I modi di produzione trasformano le reti della vita e queste, a loro volta, trasformano i modi di produzione. Al proposito vanno sottolineati due aspetti. Il primo: questa è la dichiarazione fondante del materialismo storico formulata da Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca. Il secondo: i modi di produzione sono modi di vita, interni, e non esterni, alla rete della vita. L’ecologia-mondo considera la rete della vita come animata da ciò che chiamo oikeios: il battito creativo, generativo e complesso del farsi dell’intero vivente. Ciò che Marx ed Engels chiamano «modi di vita» – e i modi di produzione in cui sono radicati – si materializza mobilitando e sviluppando reti della vita la cui potenza supera perfino quella delle più grandi civiltà. Engels sintetizzò molto bene tutto questo quando mise in guardia contro coloro che celebrano le «vittorie del capitalismo sulla natura» – vittorie che, sottolineava, sono sempre illusorie.

E cosa intende per natura a buon mercato?
Il capitalismo è un sistema di natura a buon mercato (cheap nature). Cheap ha due significati: uno è riferito al prezzo ed implica che il dinamismo capitalista tende verso la sottoproduzione del capitale circolante: l’energia e le materie prime utilizzate in un ciclo di produzione.
Nel terzo volume de Il Capitale, Marx identifica una contraddizione cruciale: man mano che le forze produttive crescono, le materie prime vengono consumate a un ritmo più rapido. A parità di condizioni, il loro prezzo aumenta – e con questo la composizione organica del capitale –, mentre il profitto diminuisce. L’altro significato di cheap ha invece a che fare con la svalutazione culturale ed etica. Questo è il punto in cui entra in gioco l’astrazione dominante: la Natura. Basta riflettere un solo momento sul linguaggio del sessismo, del razzismo e di altri assi moderni di dominio. Che cosa hanno in comune? La retorica del naturalismo.

La retorica del Progetto di Civilizzazione che, da Colombo in poi, descrive gli abitanti dei territori colonizzati come selvaggi. Gli inglesi in Irlanda, gli spagnoli in Perù, i francesi in Algeria, gli americani in Vietnam: i soggetti da colonizzare sono selvaggi, parte della Natura, e quindi bisognosi di un civilizzatore. È una storia non solo di razza e conquista, ma anche di genere. Quando afferma che le donne nel XVI secolo diventarono le «selvagge d’Europa», Silvia Federici mette in evidenza la violenza del naturalismo borghese. Analogamente, Claudia von Werlhof sostiene che, con l’ascesa del capitalismo, fu considerato Natura tutto quello che la borghesia non intendeva pagare: soprattutto il lavoro riproduttivo (biologico e sociale) delle donne. Il proletariato, pertanto, è da subito anche femitariato: il capitalismo dipende dalla subordinazione di lavoratori non retribuiti senza le/i quali la moderna formazione di classe non avrebbe potuto realizzarsi. La Natura, l’astrazione dominante, fu importante quanto la legge, l’impero e i soldati per l’accumulazione originaria e la nascita del proletariato moderno.

È in corso una crisi ecologica senza precedenti, ma il capitale si nutre di crisi: è la fine del capitalismo o l’inizio di un capitalismo ancora più nefasto?
Il capitalismo è definito dalle sue regole di riproduzione, che esaltano l’accumulazione infinita di capitale e svalutano tutto il resto. Queste regole di riproduzione sono sempre più allo stremo. Un fatto geostorico è innegabile: le grandi ondate di accumulazione capitalistica sono sempre dipese dalla conquista e dall’appropriazione del lavoro di ampie zone di frontiera e, dagli anni ’70, le frontiere del capitalismo sono andate esaurendosi. La rete della vita non può più essere messa al servizio del capitale come è accaduto nei secoli precedenti. Questa è una relazione non solo biologica e geologica, è infatti legata anche alla lotta di classe. Allo stesso tempo, l’enclosure imperialista dei beni atmosferici, come dimostrato dai livelli di emissioni di gas serra, ha incrementato la chiusura storico-mondiale delle frontiere. Il modello di rivoluzione agricola del capitalismo, che per cinque secoli ha prodotto sempre più cibo con sempre meno tempo-lavoro, sta collassando. La capacità del capitalismo di risolvere i suoi problemi è sempre dipesa dalle frontiere della natura a buon mercato. Ora queste frontiere sono esaurite. Il capitalismo sopravvive, ma come uno zombie: è morto, ma si muove ancora. Ed è incredibilmente letale.

Quale movimento ecologista considera più vicino alle sue posizioni?
Il mio ecologismo si ispira a quello di contadini e lavoratori. Chico Mendes l’ha affermato con chiarezza: «L’ecologia senza lotta di classe è giardinaggio». Non c’è niente di sbagliato nel giardinaggio. Ma il giardinaggio non ha nulla a che vedere con una politica climatica rivoluzionaria.
La politica ambientalista dominante è un ostacolo per un ecologismo della classe operaia di cui oggi c’è urgente bisogno. L’ambientalismo liberale non si è mai interessato ai lavoratori agricoli avvelenati dai pesticidi, ai minatori di carbone che soffrono di malattie polmonari, ai lavoratori neri e marroni del settore chimico della Cancer Alley in Louisiana, alle famiglie della classe operaia avvelenate dai rifiuti tossici. Il mio ecologismo, insomma, è quello delle classi lavoratrici e delle loro lotte per la giustizia, la dignità e un ambiente di vita sicuro.


 

“il manifesto” – 20 aprile 2023

L’accumulazione infinita e patologica
TEMPI PRESENTI. Un’anticipazione da «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo» (ombre corte). Stiamo affrontando cinque secoli di naturalismo borghese, l’ideologia del progetto di civilizzazione. La dicotomia Uomo-Natura è il «software» che anima l’«hardware» delle armi, delle piantagioni e delle miniere che hanno reso possibili le lunghe ondate di ecocidio e genocidio
di Jason W. Moore

Questo non è un libro sulla Natura. È un libro sul capitalismo, sui rapporti umani di potere e ri/produzione, e su come entrambi si sviluppano nella rete della vita. Esso parla di come l’ineguaglianza senza precedenti tra gli esseri umani nel capitalismo sia resa possibile ed espressa attraverso un dominio senza precedenti – non dell’Uomo sulla Natura, ma della spinta del capitalismo a trasformare le reti della vita in opportunità di profitto.
I testi che compongono questo libro parlano del carattere fondamentale del capitalismo, che non è né un sistema sociale né una logica economica – sebbene contenga questi momenti – ma è un modo di organizzare la vita planetaria. Questo è il nucleo della proposizione secondo cui il capitalismo è un’ecologia-mondo, che unisce dialetticamente l’accumulazione infinita di capitale, la ricerca patologica di potere e la coproduzione prometeica della vita planetaria.

DA QUESTO FILO CONDUTTORE, come direbbe Marx, possiamo capire la crisi climatica odierna non come antropogenica («fatta dall’uomo»), ma come capitalogenica («fatta dal capitale»). Da questa critica, possiamo iniziare a discernere le reti della vita planetaria e la potenziale solidarietà tra tutti i «lavoratori del mondo», retribuiti e no, umani ed extra-umani. Solo allora possiamo iniziare a unire le «risorse della speranza» intellettuali necessarie per lanciare una sfida internazionalista alla dittatura biosferica della borghesia mondiale.
Delle illusioni della modernità, nessuna è così potente – e nessuna è più fondamentale per le strutture di credenza della borghesia imperialista – come quella di Uomo e Natura. Di nuovo in maiuscolo: Uomo e Natura. So che questo potrebbe risultare noioso per alcuni, ma permettetemi di sottolineare l’enormità del progetto: stiamo affrontando cinque secoli di naturalismo borghese, l’ideologia del progetto di civilizzazione che ci dice come il capitalismo (la Cristianità, la Civiltà, lo Sviluppo) sia il modo di produzione più razionale e scientifico mai creato. Quando Ferguson scrive dello Sviluppismo del dopoguerra come di una «macchina antipolitica» – sottolineando la riduzione di complesse questioni politiche a procedure tecniche e manageriali – egli potrebbe benissimo parlare dei progetti imperiali dalle origini del capitalismo (e potrebbe altrettanto bene parlare dell’Antropocene e della sua politica di gestione planetaria). Certo, gli elementi favoriti di questi Progetti civilizzatori sono cambiati, diventando più secolari e meno esplicitamente eurocentrici, ma l’essenza è rimasta la stessa.

OGNI VOLTA che nuovi imperi hanno «scoperto» nuove terre con nuovi popoli che non avevano abbastanza potere militare, il primo atto è sempre stato lo stesso: dichiarare selvaggi i loro abitanti. Non-cristiani, non-civilizzati, non-sviluppati, le nuove popolazioni erano parte della Natura; non Umani, o non del tutto Umani. O non ancora Umani. Selvaggio significava indisciplinato e pigro – una mossa ideologica che giustificava naturalmente il lavoro come la strada per la Salvezza. Più volte, la buona scienza ha affermato l’ineguaglianza «naturale» tra ricchi e poveri, imperialisti e colonizzati, bianchi e neri, uomo e donna.

DICHIARARE QUALCOSA come il risultato della legge naturale – inevitabilmente attraverso la dicotomia ideologica di Uomo e Natura, depurata dei loro antagonismi di classe– è stata l’essenza del naturalismo borghese. Lungi dall’essere un retaggio del passato, esso è ancora con noi. Quando Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati uniti, dice che «le leggi dell’economia funzionano come le leggi dell’ingegneria», ci sta dando un assaggio del potere basato sul naturalismo borghese.
La nostra sfida, quindi, non è semplicemente ripensare, ma de-pensare. Dobbiamo disimparare il concetto borghese secondo cui Uomo e Natura sono descrizioni prive di valore; dobbiamo imparare a vedere che esse sono centrali per il sistema ideologico del capitalismo. La dicotomia Uomo-Natura è il «software» che anima l’«hardware» delle armi, delle piantagioni e delle miniere che hanno reso possibili le lunghe ondate di ecocidio e genocidio del capitalismo e che oggi accelerano la corsa verso l’inferno planetario. Perché questo software funzioni, esso deve convincere i quadri della borghesia – gli intellettuali, gli amministratori, gli scienziati e gli ingegneri, gli ufficiali militari – che il capitalismo è giusto, necessario e razionale. Questo è ciò che Weber intendeva quando si riferiva al «dominio razionale del mondo» da parte dell’Europa.

LA NATURA È STATA tra le prime invenzioni di quell’impulso verso il «dominio razionale». Questa affermazione non è affatto controversa nella storia delle idee. Tuttavia, gli ambientalisti e persino molti radicali sono spesso scioccati da questa affermazione.
La Natura non è «semplicemente lì». Essa è un’invenzione del tutto moderna. Nessuna civiltà prima del capitalismo immaginava un mondo diviso in due domini: l’Uomo e la Natura. Questa alienazione fu fondamentale per il primo grande movimento di accumulazione originaria a livello mondiale. Proprio come il contadino veniva espropriato dell’accesso diretto ai mezzi di produzione, la stragrande maggioranza delle popolazioni – africani, americani indigeni, slavi, celti e praticamente tutte le donne – veniva espropriata della propria umanità. Questi esseri umani, portatori di forza-lavoro e delle loro condizioni di lavoro riproduttivo, venivano assegnati alla Natura, in modo che le loro vite e il loro lavoro potessero essere svalutati. Il carattere selvaggio, selvatico o altrimenti «mostruoso» di questi esseri umani giustificava, anzi richiedeva, progetti di civilizzazione con molti nomi: cristianizzazione, civilizzazione, sviluppo. Questi progetti promettevano la salvezza, ma solo se i selvaggi (i non cristiani, i non civilizzati, i non sviluppati) si arrendevano ai civilizzatori e giuravano il loro impegno a diventare civilizzati attraverso il lavoro nelle sue forme più brutali e letali. Poiché la Natura riguarda il profitto e il lavoro, essa deve essere gestita. Questa è stata – e rimane – la priorità strategica dei civilizzatori, dei possessori di potere, capitale e razionalità sufficienti a garantire l’accumulazione infinita di capitale.

MARX CI RICORDA che il capitalismo produce zone di sacrificio: «popolazioni usa e getta» e «materiale umano usa e getta». Queste non sono «esternalità» come nel linguaggio dell’economia neoclassica, ma piuttosto sono «una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico». Queste popolazioni usa e getta sono sempre state assegnate alla Natura; le loro lotte di liberazione hanno sempre insistito sulla loro inclusione all’interno della Civiltà, oggi: «la società civile».
Ma per ogni «società civile» nel capitalismo deve esserci una «società incivile»: la zona Selvaggia è subordinata ai margini affilati della tossificazione, della miseria e dello spreco attraverso una violenza incessante e senza precedenti. Ogni momento di «spreco» nel capitalismo storico dipende da un movimento più grande di «distruzione».

UN ASSAGGIO

Indice

7 Introduzione. La prospettiva dell’ecologia-mondo e la crisi del capitalismo. Per una critica dell’ecologia necropolitica
di Gennaro Avallone

25 Prefazione. Come la classe dominante governa attraverso la natura

Parte prima. Agricoltura, ecologia-mondo e crisi capitalistiche

45 Fine corsa? Rivoluzioni agricole nell’ecologia-mondo capitalistica. 1450-2010

1. Un quadro teorico; 1.1. Il capitalismo come ecologia-mondo: verso una teoria della crisi; 1.2. Il capitalismo e la centralità del cibo a buon mercato; 2. Il neoliberismo come progetto ecologico: verso una “rivoluzione agricola al contrario”?; 3. In conclusione

75 Cibo a buon mercato e moneta cattiva. Cibo, frontiere e finanziariz- zazione nell’ascesa e crollo del neoliberismo

1. Produttività e saccheggio: finanza, frontiere e fine del surplus ecologico-mon- do; 2. La natura del cibo a buon mercato: il neoliberismo e i “quattro fattori a buon mercato” nell’ecologia-mondo capitalistica; 3. Cibo e finanza nell’ascesa del neoliberismo; 4. Il cibo a buon mercato e la chiusura della grande frontiera: supererbacce e altre barriere per una nuova rivoluzione in agricoltura; 4.1. La rivoluzione biotecnologica e il suo Termidoro: l’effetto supererbacce; 4.2. Cibo e crisi del neoliberismo: verso una nuova età dell’oro?; 5. Conclusioni

Parte seconda. Le nature e la prospettiva dell’ecologia-mondo

109 La fine della natura a buon mercato. Come ho imparato a non preoccuparmi dell’ambiente e ad amare le crisi del capitalismo

1. Introduzione; 2. Il quadro teorico: rapporti di valore nell’ecologia-mondo capitalistica; 3. Natura, limiti e capitale: valore e surplus ecologico-mondo; 4. Dall’appropriazione massima alla caduta tendenziale del surplus ecologico; 5. L’ascesa e la fine della natura a buon mercato: il momento neoliberale; 6. Il capitalismo come frontiera: nature sociali astratte; 7. In conclusione

142 Da Oggetto a Oikeios. La produzione dell’ambiente nell’ecologia- mondo capitalistica

1. L’oikeios: La dialettica nella questione della Natura-come-matrice; 2. Le im- maginazioni dell’ecologia-mondo: verso il capitalismo-nella-natura; 3. La crea- zione-di-ambiente

156 Frattura metabolica o cambiamento metabolico? Dal dualismo alla dialettica nell’ecologia-mondo capitalistica

1. Il capitalismo come modo di organizzare la natura: dall’aritmetica verde alla ragione dialettica; 2. Dal dualismo alla dialettica: dalla frattura metabolica al cambiamento metabolico; 3. La frattura metabolica; 4. Verso un metabolismo unico: geografia, natura e limiti del capitale

179 Bibliografia


 

Prefazione
Come la classe dominante governa attraverso la natura

Questo non è un libro sulla Natura. È un libro sul capitalismo, sui rapporti umani di potere e ri/produzione, e su come entrambi si sviluppano nella rete della vita. Esso parla di come la disuguaglianza senza precedenti tra gli esseri umani nel capitalismo sia resa possibile ed espressa attraverso un dominio senza precedenti – non dell’Uomo sulla Natura, ma della spinta del capitalismo a trasformare le reti della vita in opportunità di profitto (Amin 1991; Patel e Moore 2018). I testi che compongono questo libro parlano del carattere fondamentale del capitalismo, che non è né un sistema sociale né una logica economica – sebbene contenga questi momenti – ma è un modo di organizzare la vita planetaria. Questo è il nucleo della proposizione secondo cui il capitalismo è un’ecologia-mondo, che unisce dialetticamente l’accumulazione infinita di capitale, la ricerca patologica di potere e la coproduzione prometeica della vita planetaria (Moore 2015a). Da questo filo conduttore, come direbbe Marx, possiamo capire la crisi climatica odierna non come antropogenica (“fatta dall’uomo”), ma come capitalogenica (“fatta dal capitale”) (Moore 2022d). Da questa critica, possiamo iniziare a discernere le reti della vita planetaria e la potenziale solidarietà tra tutti i “lavoratori del mondo”, retribuiti e no, umani ed extra-umani. Solo allora possiamo iniziare a unire le “risorse della speranza” intellettuali necessarie per lanciare una sfida internazionalista alla dittatura biosferica della borghesia mondiale.
Delle illusioni della modernità, nessuna è così potente – e nessuna è più fondamentale per le strutture di credenza della borghesia imperialista – come quella di Uomo e Natura. Di nuovo in maiuscolo: Uomo e Natura. So che questo potrebbe risultare noioso per alcuni, ma permettetemi di sottolineare l’enormità del progetto: stiamo affrontando cinque secoli di naturalismo borghese, l’ideologia del Progetto di civilizzazione che ci dice come il capitalismo (la Cristianità, la Civiltà, lo Sviluppo) sia il modo di produzione più razionale e scientifico mai creato. Quando Ferguson scrive dello Sviluppismo del dopoguerra come di una “macchina antipolitica” – sottolineando la riduzione di complesse questioni politiche a procedure tecniche e manageriali – egli potrebbe benissimo parlare dei progetti imperiali dalle origini del capitalismo (e potrebbe altrettanto bene parlare dell’Antropocene e della sua politica di gestione planetaria) (Ferguson 1990). Certo, gli elementi favoriti di questi Progetti civilizzatori sono cambiati, diventando più secolari e meno esplicitamente eurocentrici, ma l’essenza è rimasta la stessa. Ogni volta che nuovi imperi hanno “scoperto” nuove terre con nuovi popoli che non avevano abbastanza potere militare, il primo atto è sempre stato lo stesso: dichiarare selvaggi i loro abitanti. Non-cristiani, non-civilizzati, non-sviluppati, le nuove popolazioni erano parte della Natura; non Umani, o non del tutto Umani. O non ancora Umani. Selvaggio significava indisciplinato e pigro – una mossa ideologica che giustificava naturalmente il lavoro come la strada per la Salvezza (Alatas 1977). Più volte, la Buona Scienza ha affermato l’ineguaglianza “naturale” tra ricchi e poveri, imperialisti e colonizzati, bianchi e neri, uomo e donna. Dichiarare qualcosa come il risultato della legge naturale – inevitabilmente attraverso la dicotomia ideologica di Uomo e Natura, depurata dei loro antagonismi di classe – è stata l’essenza del naturalismo borghese (McNally 1993). Lungi dall’essere un retaggio del passato, esso è ancora con noi. Quando Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti, dice che “le leggi dell’economia funzionano come le leggi dell’ingegneria”, ci sta dando un assaggio del potere basato sul naturalismo borghese.
La nostra sfida, quindi, non è semplicemente ripensare, ma de-pensare [unthink]. Dobbiamo disimparare il concetto borghese secondo cui Uomo e Natura sono descrizioni prive di valore; dobbiamo imparare a vedere che esse sono centrali per il sistema ideologico del capitalismo. La dicotomia Uomo-Natura è il “software” che anima l’“hardware” delle armi, delle piantagioni e delle miniere che hanno reso possibili le lunghe ondate di ecocidio e genocidio del capitalismo e che oggi accelerano la corsa verso l’inferno planetario. Perché questo software funzioni, esso deve convincere i quadri della borghesia – gli intellettuali, gli amministratori, gli scienziati e gli ingegneri, gli ufficiali militari – che il capitalismo è giusto, necessario e razionale. Questo è ciò che Weber intendeva quando si riferiva al “dominio razionale del mondo” da parte dell’Europa.

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