Il mondo come metropoli

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Leonardo Lippolis

pp. 235
Anno 2021 (novembre)
ISBN 9788869482021

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Descrizione

Leonardo Lippolis
Il mondo come metropoli
Capitalismo, arte e rivoluzione nell’epoca della grande trasformazione urbana, 1853-1933

Da più di un secolo il mondo si sta trasformando in un’enorme metropoli e gli effetti di questa urbanizzazione sono sempre più drammaticamente visibili. Tra la Parigi della seconda metà dell’Ottocento e la Berlino dei primi decenni del Novecento si è sviluppata una grande trasformazione urbana, un processo decisivo dettato dalle rinnovate esigenze del capitalismo avanzato. Il dogma dell’utilitarismo e del produttivismo che ha generato la città contemporanea ha determinato una radicale mutazione sociale, politica e antropologica, tanto che l’esperienza urbana che si è forgiata in quei nuovi spazi è, nelle sue fondamenta, la stessa che viviamo ancora oggi.
Se Simmel, Kracauer e Benjamin sono stati i primi a descriverne i tratti peculiari, una generazione di artisti, architetti, scrittori e una larga parte dell’avanguardia tentarono di opporvisi, cogliendone immediatamente le conseguenze pericolose e facendosi parte attiva del movimento rivoluzionario. Essi elaborarono una nuova idea di arte e felicità e la misero letteralmente alla prova delle barricate, dei tumulti del loro tempo, identificando il nemico a cui muovere guerra proprio nella disciplina annichilente delle nuove città.
Scopo di questo studio è allora contribuire a ricostruire la genesi dello spirito della metropoli capitalista, ma anche restituire le voci di chi provò a concretizzare l’idea benjaminiana della rivoluzione come azionamento del freno di emergenza del treno di un “progresso” lanciato verso un abisso che pare sempre più vicino. Voci lontane nel tempo ma ancora cariche di una urgenza dirimente per il presente.

Leonardo Lippolis si è specializzato in Storia dell’arte contemporanea all’Università di Genova e insegna nelle scuole superiori. Si occupa dei rapporti tra arte, architettura, capitalismo e rivoluzione in relazione allo spazio urbano, con una particolare attenzione alle avanguardie storiche e alle teorie situazioniste. Tra le sue pubblicazioni: Urbanismo unitario (Testo & Immagine, 2002), La nuova Babilonia (Costa & Nolan, 2007) e Viaggio al termine della città (Elèuthera, 2009).

RASSEGNA STAMPA

ALTRAPAROLA – n. 7 – 29 Luglio 2022

Uno spazio per uccidere il tempo: le origini della metropoli moderna tra Ottocento e Novecento
di Francesco Biagi

1. L’ultimo volume di Leonardo Lippolis dal titolo Il mondo come metropoli. Capitalismo, arte e rivoluzione nell’epoca della grande trasformazione urbana, 1853-1933 (Ombre Corte, Verona, 2021) si propone di indagare l’origine e la prima gestazione degli aspetti politici, sociali e culturali dell’architettura e dell’urbanistica capitalista. Il metodo di questa ricerca d’archivio è l’antistoricismo di Walter Benjamin: l’autore infatti con acuta originalità rilegge alcuni eventi storici a cavallo fra Ottocento e Novecento, mettendoli in connessione con la “grande trasformazione” urbana che avviene lungo questo arco di tempo. Il lettore già si sarà accorto che, per Lippolis, il rapporto tra economia e società studiato da Karl Polanyi è un’utile strumento per evidenziare l’elemento innovativo che il capitalismo porta sul piano artistico, architettonico e urbanistico. In secondo luogo, Lippolis, da un lato, interroga problemi attuali attraverso la ricostruzione della storia di alcuni concetti socio-urbanistici, gettando nuova luce su autori come Benjamin, Simmel e Kracauer, dall’altro lato, inscrive il suo lavoro nel dibattito aperto da Mike Davis e da Jason Moore. Viviamo in un pianeta dove la maggior parte della popolazione vive in zone urbane e non più rurali, questa è la grande novità approfondita ne “Il pianeta degli slum” di Davis; e, inoltre, viviamo in un pianeta che rischia la sua estinzione per aver alterato gli equilibri ecologici non a causa di una generica impronta umana, ma a causa dell’impronta lasciata dal Capitalismo, questa è la grande novità che Moore porta nel dibattito dell’ecologia politica. Riassumendo, è al Capitalismo e alle sue grandi trasformazioni apportate nei secoli che dobbiamo guardare per comprendere la questione urbana e la questione ecologica. L’ipotesi da cui prende le mosse Lippolis è che vi sia un legame strettissimo tra lo sviluppo del capitalismo e l’evoluzione delle città, proponendosi di indagare come la ristrutturazione di quest’ultime “avvenuta tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento abbia comportato la colonizzazione utilitaristica delle forme di vita emotive, sociali e culturali dei suoi abitanti. L’obiettivo di questo studio – prosegue l’autore – è dunque indagare la nascita e lo sviluppo dello spirito della metropoli come volontà e rappresentazione, causa e effetto, del capitalismo e del mondo d’oggi” (p. 11). Nella ricca indagine di Lippolis ritroviamo il preludio dei fenomeni e delle tendenze della città fordista della seconda metà del Novecento e dell’attuale città neoliberale del XXI secolo.

2. La metropoli moderna, secondo Lippolis, opera un salto di qualità, non è attraversata solo dalle dinamiche della città industriale denunciate, da differenti prospettive, da Friedrich Engels (La situazione della classe operaia in Inghilterra), da Charles Dickens (Tempi difficili e Oliver Twist) o da Jack London (Il popolo dell’abisso). La novità dell’avvento della modernità urbana è la seguente, scrive Lippolis: “la città industriale che diventa metropoli non si limita ad organizzare il ciclo dell’economia di mercato, ma comporta una trasformazione totale della vita” (p. 12). Cosa significa “trasformazione totale della vita”? E cosa comporta evidenziare questo aspetto nel dibattito sulla questione urbana? Un lettore attento sicuramente capirà l’influenza di Debord e del movimento situazionista, di Henri Lefebvre e dei “critici” della vita quotidiana prodotta dal capitalismo, ma tutto ciò non è sufficiente a comprendere l’originale punto di vista espresso dall’autore. I primi capitoli del corposo volume (quasi trecento pagine) sono atti a dimostrare come il sistema capitalista abbia necessariamente bisogno di un “luna park” a cielo aperto per nascondere e omettere la brutalità del suo comando economico-politico sugli esseri umani e sulla natura. La città diventa metropoli moderna con le grandi esposizioni universali, con i negozi e i centri commerciali, e i primi flussi turistici dell’Ottocento; la città diventa metropoli moderna, quindi, se offre uno spazio per ammazzare il tempo. Debord sosteneva che “Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo”. La “società dello spettacolo” è il capitalismo che “ha preso in appalto la totalità dell’esistenza umana”, e l’esistenza umana è il tempo di vita che ha bisogno di spazi precisi per essere definitivamente colonizzato da un certo stile di vita. La dimensione coloniale, che la società dei consumi prodotta dal capitalismo, istituisce sulla vita quotidiana degli esseri umani è una delle analisi più lucide emerse dai seminari di critica della vita quotidiana organizzati negli anni Sessanta da Lefebvre a Strasburgo, incontri partecipati dall’amico Debord e dal gruppo situazionista. Dal un lato, il lavoratore deve partecipare alle piccole gioie e agli effimeri mezzi di godimento per trovarsi occupato anche nel tempo libero come consumatore, altrimenti potrebbe impiegare quel tempo per formarsi, organizzarsi e fare politica contro il regime costituito. Dall’altro lato, l’inettitudine e il parassitismo della classe borghese e della decadente aristocrazia trova la sua ragione di esistere nel divertimento conseguito attraverso i grandi guadagni. Lippolis, in maniera molto erudita, mette in luce come questo progetto sia parte fin dall’inizio di un’urbanistica che organizza lo spazio per un certo tipo di tempo, per un “pensiero unico” che propone un certa modalità di vivere il tempo. L’attuale modello di città neoliberale (che io preferisco definire così, anziché accogliere il concetto di “città post-fordista”) non ha inventato nulla di nuovo: i primi vagiti dei processi di gentrificazione e di turistificazione sono ben analizzati da Lippolis nel racconto della Parigi di fine Ottocento e nella Berlino dei primi anni del Novecento. La cosa sconcertante, e che più colpisce durante la lettura, è il notare come oggi i processi di trasformazione spaziale della città, anche quando si configurano come “nuove accumulazioni originarie”, non sono altro che forti intensificazioni di una matrice di pratiche urbane atte ad addomesticare la vita quotidiana collettiva nate nel periodo preso in esame dall’autore.

3. Un’altra questione è cruciale per comprendere il vero senso dell’opera di Lippolis: chi è capace di comprendere la natura di questi processi? Accanto a pensatori come Simmel, Benjamin e Kracauer, Lippolis passa in rassegna le avanguardie artistiche e culturali, le quali hanno accompagnato politicamente dei tentativi di sovversione del sistema, che con Miguel Abensour, possiamo definire di “democrazia insorgente”, come la Comune di Parigi in Francia e l’insurrezione spartachista in Germania. Un ulteriore elemento che colpisce il lettore è la lucidità delle analisi e delle proposte delle avanguardie artistiche, le quali spesso sono molto più vicine alle istanze del popolo insorto, rispetto alle avanguardie politiche di matrice giacobina, che prendono il sopravvento.
La guerra alle cosiddette classi pericolose è condotta anche spazialmente: Le Corbusier sostiene negli anni Venti la dicotomia “architettura o rivoluzione”, quindi pensa l’architettura nel quadro di un uso profondamente neutralizzatore del conflitto sociale, in nome dell’operato precedente di Haussmann che sventra i quartieri parigini, creando grandi boulevards, proprio per evitare altre insurrezioni dopo il 1848. Scrive l’autore: “Dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 con cui pone definitivamente fine al ciclo rivoluzionario del 1848, Napoleone III si dà immediatamente un obiettivo prioritario, adeguare la Francia alla civiltà industriale, che comporta la necessità di una modernizzazione urbanistica della capitale” (p. 65). E prosegue: “In centro città i canoni di locazione delle case salgono alle stelle, raddoppiando tra il 1851 e il 1857. Gli operai si lamentano di questa situazione e, nel 1856, Napoleone III si offre di ricevere una loro delegazione per ascoltarli, ma il meccanismo avviato è ormai inarrestabile. Si calcola che, in diciassette anni di lavori per l’apertura dei boulevards, ben 350.000 parigini ne siano stati allontanati” (p. 67). Lippolis, sulla scia dell’analisi di Kristin Ross, di Guy Debord e Henri Lefebvre, ci mostra come la gentrificazione dei centri storici non sia una vera novità: chiaramente le classi proletarie vengono allontanate dal centro di Parigi proprio in quanto “pericolose” dal punto di vista politico, tuttavia quante volte negli ultimi anni abbiamo assistito inermi alla creazione mediatico-sociale del soggetto “pericoloso”, contro il quale cominciare operazioni di rinnovamento urbano per accogliere maggiori flussi turistici o semplicemente un altro tipo di classe sociale disponibile a spendere di più per l’affitto e per i consumi? Inoltre, un altro esempio: cos’è la grande accoglienza offerta ai cosiddetti “nomadi digitali” nelle città del Sud Europa, se non un’operazione economico-politica preposta ad attrarre gruppi sociali che, grazie ai salari più alti del nord Europa, possono spendere e consumare maggiormente di un abitante locale, il quale con fatica arriva a fine mese con il salario minimo o una modesta pensione?
C’è una matrice governamentale comune che è preposta da un lato all’attrazione di capitali nel completo disinteresse dei veri bisogni di chi vive un certo spazio, dall’altro lato un’imposizione di consumi e stili di vita che mercificano e stereotipizzano forme di vita locali, combinandole con il principio edonista del godimento, il quale è sempre un surrogato di un’autentica esperienza di piacere. È per questo che i Comunardi assorbono le idee del pittore Gustave Courbet sul concetto di “lusso comune” e il “diritto all’ozio” di Paul Lafargue, rivendicando non solo la giustizia sociale ed economica, ma anche il diritto a una vita quotidiana che si dedica autenticamente all’arte e ai piaceri della vita espropriati dalle classi benestanti e riproposti esclusivamente nel sistema di mercato. Inoltre, la Comune mette in discussione il sistema educativo e la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ritrovando un nuovo umanesimo anti-utilitarista e anti-capitalista. Artisti come “Rimbaud, Reclus e Lafargue – scrive Lippolis – avrebbero formulato la stessa rivendicazione a nome della Comune: la rivoluzione deve abbattere la divisione tra i pochissimi che possono e i tantissimi che non possono permettersi il lusso di giocare con le parole e le immagini” (p. 109). La posta in gioco è un altro uso della vita quotidiana per gli oppressi che spezzano le proprie catene anche contro precise intenzioni del Secondo Impero e Lippolis ricorda bene come “l’Esposizione universale del 1867 si era posta tra i propri scopi quello di pubblicizzare gli oggetti per il miglioramento fisico e morale delle masse” (p. 110). L’autore scava autenticamente a contrappelo la storia ufficiale per farci comprendere come il conflitto sociale nella Francia dell’Ottocento sia attraversato da più dispositivi di oppressione. L’educazione delle masse comincia ad essere progettata non solo per mezzo dei più classici strumenti repressivi, ma – al contrario – produttivi di una nuova forma di vita che si basa sui consumi e la feticizzazione del fascino della merce. Il capitalismo si fa “religione” dice Benjamin e l’eresia dei Comunardi è proprio quella di scagliarsi contro questo nuovo credo che intreccia lo spazio urbano della metropoli moderna e la vita quotidiana che le si vuole imporre: “Basta capitali! Città libere! […] Il programma della Comune di Parigi non è altro che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo trasposta alla città”, esclamano i comunardi il 22 aprile 1871.

4. La Comune, com’è noto, esce sconfitta dopo i mesi di insurrezione, ed è estremamente interessante l’analisi che l’autore fa dell’impressionismo, come corrente artistica che contribuisce a tessere le lodi di quel potere che ha schiacciato senza pietà la rivolta parigina (pp. 121 e seg.). Il volume di Lippolis può essere letto anche come una controstoria dell’arte, quest’ultima è vivisezionata evidenziando i rapporti che intrattiene con gli equilibri politici, con la produzione dello spazio della metropoli e con la produzione del tempo della vita quotidiana che viene imposta all’esistenza urbana. Questa è la prospettiva che permette all’autore di passare al Novecento, alla Germania e alla città di Berlino come crocevia di dinamiche che contaminano poi tutto lo scenario europeo. Per ragioni di spazio, non è qui possibile soffermarsi sull’analisi delle avanguardie artistiche a cavallo tra Germania e Russia, ovvero a cavallo tra la rivoluzione d’Ottobre e la rivoluzione tedesca incompiuta e abortita fin dall’inizio, tuttavia resta di estremo interesse la discussione dell’operato di Le Corbusier, di Gropius e del Bauhaus che si intrecciano con la ribellione degli artisti espressionisti avidi lettori di Bakunin e Marx, e ispirati dallo spirito dell’utopia trattato da Bloch. Il Bauhaus nasce con l’idea di riprendere proprio quella visione dell’arte promossa dalle avanguardie che avevano sostenuto l’insurrezione comunarda, infatti doveva essere un luogo dove il sapere artigiano tornava a fondersi con lo spirito dell’artista: “il Bauhaus evoca la Bauhütte, la comunità medievale dei muratori e scalpellini che si associavano per costruire le cattedrali […] all’epoca l’artista era un artigiano, l’artifex, un membro della comunità […] un esempio storico di una diversa soluzione a quel rapporto tra forma e funzione che il razionalismo stava trasformando” (p. 174). Inizialmente, l’architettura non era una disciplina specialistica nel Bauhaus, ma era parte di una visione olistica della produzione culturale degli artisti. Il programma del Bauhaus del 1919 scritto da Gropius (ibidem) è fortemente impregnato di idee consiliariste – che conciliavano il meglio della tradizione anarchica e comunista – promosse dagli scioperi e rivolte del movimento operaio tedesco. Lippolis raccoglie dati e testimonianze storiche che ci parlano di un Bauhaus che si struttura come soggetto capace di pensare una nuova arte per una nuova vita quotidiana, che possa rispondere al desiderio di autenticità espresso nell’antagonismo al sistema capitalista. Tuttavia, questa officina di idee si piegherà, in seguito, da un lato in Germania al vento reazionario che permette l’ascesa al potere del Nazismo e dall’altro lato in Russia allo Stalinismo. Esemplare è la parabola di Gropius, il quale – a fronte della dura repressione in cui soccombe il movimento operaio tedesco – perde le speranze in un’arte anticapitalista e sostiene la necessità di accogliere il funzionalismo e il razionalismo urbanistico al fine di temperare la brutalità della modernità. Ovvero, l’artista del Bauhaus non è più tale, ma si specializza, diventa un architetto che progetta edilizia popolare standardizzata, e solo questo resta l’unico orizzonte possibile per essere utile alla causa dei più oppressi. Ugualmente, in Russia ci saranno artisti che si piegano al regime, al contrario Kandinskij e Chagall sceglieranno l’esilio pur di non sottomettersi al bolscevismo che accoglie senza spirito critico il taylorismo e il funzionalismo urbanistico. L’originalità di Lippolis è quella di farci comprendere in profondità come sotto l’ombrello della modernità tayloristica (nei luoghi di lavoro) e funzionalista (nell’urbanistica) si siano incagliate ugualmente i totalitarismi (fascismo, nazismo e comunismo sovietico) così come le socialdemocrazie (dalla Repubblica di Weimar ai regimi democratici del secondo dopoguerra). Per comprendere queste dinamiche è utile ricordare la parabola di Le Corbusier: in Francia cresce e aderisce in ambienti reazionari che simpatizzano per i nuovi governi di Hitler e Mussolini; in seguito è entusiasta di collaborare con il regime sovietico e anche con il regime di Vichy; e nel secondo dopoguerra è proprio la sua urbanistica ad essere il modello per la ricostruzione in Europa (infatti è proprio per questo che l’architetto svizzero è il principale bersaglio della critica dell’urbanistica espressa da Debord e Lefebvre).

5. Il volume di Lippolis è davvero molto ricco e non è qui possibile restituire tutta la complessità, tuttavia vorrei concludere con una riflessione sul Bauhaus, dato che recentemente le istituzioni europee hanno dato vita a un programma denominato “nuovo Bauhaus” al fine di ripensare la sostenibilità urbana e ambientale in vista del “Green New Deal”. Inoltre, il programma promuove anche la partecipazione di facoltà universitarie come partner per i progetti da sviluppare con le istituzioni politiche, amministrative e della società civile. Persino la presidentessa Von Der Leyen si è esposta in prima fila. Tuttavia, ci chiediamo con quale cognizione di causa le istituzioni europee avviino un programma comunitario riprendendo la tradizione del Bauhaus. Con un pizzico di ironia è doveroso domandarsi: avremo un “Green New Deal” capace, come il primo Bauhaus, di essere permeabile alle istanze dei movimenti sociali ecologisti contemporanei o soccomberemo in nome delle innumerevoli “rivoluzioni passive”, spesso praticate anche con una certa dose di ignoranza storica, dalle élite governative liberali oggi al potere?


 

OperaViva – 8 giugno 2022

L’urbanizzazione capitalistica del mondo. Capitalismo, arte, rivoluzione
di Stefano Taccone

Leonardo Lippolis è uno di quegli studiosi, per la verità non molti , che concepisce la sua formazione storico-artistica non come uno specialismo atto ad indagare in termini micro-formalistici fatti senza una visione d’insieme; egli è piuttosto consapevole sia della necessità dell’indagine specificamente artistico-visiva di confrontarsi con gli altri linguaggi artistici – compresi quelli più recenti come il cinema, e con le altre discipline in generale – sociologia, storia, filosofia ‒, sia di quella di essere politici nella propria ricerca, il che non significa tanto curvarla rispetto agli obiettivi di un proprio orizzonte militante, bensì inquadrare i fatti entro una narrazione generale che, pur non rigida ed impenetrabile – anzi tutt’altro – sia il portato di un pensiero forte. Ciò è tanto urgente quanto non così frequente in un panorama della ricerca storico-artistica – e non solo – che, per tutta una serie di cause oggettive e soggettive che in questo luogo mi è impossibile analizzare, tende invece ad inquadrarsi in una supposta, parcellare neutralità, che non è altro che la cornice data dai valori dominanti.

Tale attitudine in Lippolis non è certo casuale, ma va ricondotta alla sua peculiare formazione e ai suoi esordi nella ricerca, tornando indietro di un quarto di secolo circa. La prima è innanzi tutto sì storico-artistica, ma con un particolare interesse fin dal principio non solo per le arti visive, ma anche per l’architettura e l’urbanistica, dunque per la progettazione dello spazio in cui si vive, che è questione squisitamente politica, al di là di come la si declini. Lo sanno bene i membri dell’Internazionale Situazionista, alla quale – in particolare proprio al loro discorso sulla critica dell’urbanistica e dell’architettura verso una riqualificazione radicale della vita quotidiana che proceda proprio da esse – sono dedicate le sue due prime monografie Urbanismo Unitario (2002) e La Nuova Babilonia (2007). E l’immersione precoce nella teoria e nella prassi situazioniste è da identificarsi quale ancor più pregante motivazione del suo approccio. Col successivo Viaggio al termine della città (2009) il bagaglio critico ormai consolidato di Lippolis va ad aggredire il binomio metropoli e arti nel primo trentennio della fine dell’utopia moderna: egli sceglie come evento inaugurale di tale tempo del dopo la demolizione del complesso residenziale lecorbusiano di Prutt-Igoe a Saint Louis nel Missouri (1972), progettato dall’architetto nippo-americano Minoru Yamasaki, al quale si devono anche le Torri Gemelle, parimenti , come è noto, non più esistenti, la cui rovinosa scomparsa (2001) assurge invece ad altro limite cronologico, oltre il quale c’è un’epoca ancora nuova in cui però – almeno al tempo dell’uscita del libro – si è ancora troppo invischiati per affrontarla con la necessaria lucidità. Due mesi prima degli attentati dell’11 settembre, peraltro, si colloca un altro evento che segna l’immaginario collettivo, il G8 di Genova con tutto il contorno che resta hegelianamente più noto che conosciuto, e Lippolis, genovese, non manca di dedicare ad esso alcune pagine della monografia del 2009, fornendo così indirettamente ulteriori indizi sugli input che hanno costruito il suo profilo di studioso.

Ad oltre dieci anni di distanza da tale indagine, la metropoli tra dispositivo di razionalizzazione della società e luogo di eccedenza dai sicuri binari in cui invece i padroni del vapore vorrebbero costringere le facoltà umane, con l’urbanistica, l’architettura e le arti che giocano ruoli complessi e sottili in tale appassionante e intricata conflittualità, è ancora al centro degli interessi di Lippolis, ma questa volta più che esplorare il passato prossimo si tratta di risalire più indietro, sulla falsariga dell’arco temporale del celebre discorso di Karl Polanyi sulla grande trasformazione. Nasce così Il mondo come metropoli. Capitalismo, arte, rivoluzione nell’epoca della grande trasformazione urbana, 1853-1933 (Ombre Corte, 2021), un saggio che si pone l’obiettivo di ricostruire con ampio respiro alcune delle più pregnanti letture e critiche degli snodi cruciali dell’ urbanizzazione capitalista del mondo e dei suoi nefasti risvolti, senza però distogliere mai gli occhi dal gauginiano «dove andiamo?», giacché se Walter Benjamin – uno dei pilastri delle tematiche di Lippolis – corregge Marx affermando che forse le rivoluzioni più che «la locomotiva della storia universale […] sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno» ‒ citazione che l’autore sceglie di porre in epigrafe all’introduzione ‒, la risposta al terzo quesito del parigino innamorato dei popoli primitivi «potrebbe ancora non essere quell’abisso della catastrofe che non appare più una semplice profezia di sventura».

Due sono in verità le città sulle quali si focalizza Lippolis per raccontare la grande trasformazione urbana e i suoi critici, scegliendo così di fatto, per quanto non lo dichiari esplicitamente, di rivolgere il cuore dell’indagine ‒ almeno per ora – all’Europa occidentale: Berlino e Parigi , benché non manchi un ampio parallelismo con Mosca e con l’area russa e poi sovietica più in generale. Tra le ragioni di tale opzione considererei non secondaria la possibilità di mettere a paragone due differenti processi di urbanizzazione, dal momento che lo sviluppo della capitale tedesca «trae vantaggio dal non avere pressoché alcun vincolo storico da rispettare» e dalla possibilità dunque di espandersi «a macchia di leopardo, attraverso un assorbimento disomogeneo di borghi e villaggi», dal non essere mai stata, a differenza della capitale francese , ma anche di Vienna, «una città aristocratica e di corte», rappresentando piuttosto «una figlia diretta dell’industrializzazione, una tabula rasa su cui il capitalismo può disegnare un prototipo esemplare dell’organizzazione urbana delle proprie necessità». Vi è poi da tener conto che il saggio «si propone di analizzare non solo la genesi della metropoli ma anche di ripercorrere alcuni dei sentieri che tentarono di aprire una via alternativa ad essa» (Comune parigina del 1871, insurrezione spartachista berlinese del 1919).

Berlino è innanzi tutto al centro di riflessioni di uno dei fondatori della sociologia come Georg Simmel, attraverso le quali, per quanto chiarisca che non intenda «giudicare ma solo comprendere», pure – Lippolis ne è convinto ‒ «getta le basi della critica radicale della metropoli capitalista». Sulla scia da lui tracciata si muove il filosofo, con una formazione da architetto, Siegfried Kracauer, per quanto convinto che il discorso debba compiere un salto di qualità, visto e considerato che Simmel non indica «alcun sentiero in cui dovrebbe scorrere la vita», mentre il suo progetto è invece quello di «lavorare per la trasformazione dell’ordine sociale dominante». Persuaso dell’efficacia del cinema come strumento d’indagine della metropoli – esso è «la nuova arte che viene più condizionata dal fascino della nuova città – non teme di andare contro vento rispetto ai giudizi dominanti. Metropolis (1927) di Fritz Lang «neutralizza concettualmente la possibilità» di una ribellione ed è lo stesso regista a ricordare che Goebbels gli disse «che molti anni prima lui e il Führer avevano visto il mio film Metropolis in una cittadina di provincia e Hitler aveva detto allora di volermi affidare i film nazisti». Il contemporaneo Berlino. Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann, lungi dall’emulare il sovietico Kinoglaz di Dziga Vertov, «figlio di una rivoluzione vittoriosa» ‒ cui pure esplicitamente si ispira –, «mette a fuoco una società che è riuscita a scansare la rivoluzione e ora, sotto la Repubblica, non è che un fittizio conglomerato di partiti e di ideali». Ad essi contrappone l’antieroico La strada (1923) di Karl Grune, ove si narra del «goffo e patetico tentativo di un piccolo borghese berlinese di sfuggire alla noia della propria vita privata facendosi sedurre dal caos notturno della metropoli». Se per Lippolis «Kracauer anticipa di quarant’anni l’analisi situazionista della società dello spettacolo», per Walter Benjamin egli è felicemente «un guastafeste, l’uomo che non sta al gioco, il cui metodo possiede quel carattere distruttivo con cui lo stesso Benjamin […] vuole distruggere la falsa coscienza del sistema sociale dominante». Quest’ultimo, a differenza di Kracauer, non scrive molto sulla Berlino contemporanea, ma è di grande interesse rilevare come quel poco scaturisca in contrasto non solo con la Berlino della sua infanzia, ma anche con due città apparentemente lontanissime, come Mosca e Napoli, eppure accomunate dalla loro capacità di conservare modi di vita ancora prossimi all’Erfahrung, ovvero «l’esperienza accumulata e tramandabile condivisa dalle società precapitaliste» che si contrappone all’Erlebnis, «l’esperienza vissuta individuale e frammentaria tipica della modernità» che trionferebbe nella capitale tedesca.

L’urbanizzazione capitalista di Parigi appare, come accennato, relativamente più difficile, data la presenza di ben altre persistenze storiche, benché cronologicamente sia Berlino a seguire in tale processo Parigi e non viceversa. La spinta decisiva avviene sotto Napoleone III per mezzo del suo urbanista-generale Georges Eugène Haussmann, spietato sventratore dei quartieri medioevali con la loro socialità poco funzionale alla valorizzazione capitalista. La scomparsa di quel mondo è il presupposto dello spleen baudleriano, come della flâneurie, che, resa celebre dal poeta francese e da lui intesa come pratica di resistenza alla razionalizzazione urbana capitalista, passerà poi ai surrealisti, ai situazionisti e oltre. Eppure tale trasformazione, per quanto enorme, non solo non argina lo sviluppo di una coscienza di classe da parte degli esclusi, ma probabilmente la incoraggia perfino; onde far sì che a tale coscienza subentri piuttosto «il legame di solidarietà di un pubblico massificato», osserva Alberto Abruzzese, è necessario lanciare quelle vere e proprie feste popolari del capitalismo – come le chiama Benjamin – che sono le esposizioni universali – interessante notare del resto che «il periodo compreso tra le due grandi esposizioni parigine del 1855 e del 1867 coincide proprio con l’arco temporale in cui Hausmann ricostruisce Parigi e in cui si diffondono i grandi magazzini».

Non di meno né le esposizioni universali né la nuova Parigi haussmanniana con i suoi boulevard – una pia illusione si rivela infine il loro essere a prova di barricate – scongiurano, benché con la complicità della guerra franco-prussiana, la effimera ma intensa esperienza della Comune di Parigi, risposta alla segregazione di un popolo perpetuata dalla repressione bonapartista, momento in cui «Le classi lavoratrici e pericolose irrompono nella sfera pubblica come movimento rivoluzionario», ma anche grande occasione di protagonismo per gli artisti: se il personaggio simbolo tra essi della Comune è indiscutibilmente Gustave Courbet, quasi ripercorrendo le orme di Jacques-Louis David ai tempi della Rivoluzione di ottant’anni prima, il ruolo politico collettivo svolto dagli artisti – malgrado non poche esitazioni e defezioni – resta notevole. È vero: «La Comune è durata troppo poco per i tempi di produzione delle belle arti» e ciò induce qualche critico a parlare di una rivoluzione senza immagini, tuttavia, considerando che «gli atti più radicali della Comune vanno ricercati nelle questioni riguardanti la riorganizzazione della vita quotidiana e dello spazio-tempo sociale», il suo contributo nel campo delle arti va innanzi tutto identificato nei tentativi di «rifondarne lo statuto e la funzione sociale» più che nel «produrre opere di propaganda».

L’eredità degli artisti della Comune viene raccolta nell’immediato da William Morris, il cui proposito di riqualificare gli oggetti comuni attraverso la bellezza dell’arte, e quindi la vita stessa, andrebbe considerato una filiazione del progetto estetico-politico comunardo più di quanto comunemente si pensi. Erede novecentesco indiscusso di Haussmann è invece Le Corbusier: soluzioni urbanistiche per il centro di Parigi come il Plan Voisin (1922-1925) o documenti come la Carta di Atene (1933) solo lì a dimostrarlo, mentre il romanzo Parigi nel XX secolo di Julius Verne – scritto nel 1863, ovvero negli anni dell’haussmannizzazione della capitale francese ‒, rappresenta il sinistro presagio di ciò che verrà; l’essere stato pubblicato solo nel 1994, perché «L’editore Hetzel giudicò le visioni di Verne troppo pessimistiche per una società che stava entrando nella seconda rivoluzione industriale», nulla toglie alle sue intuizioni.

Malgrado Le Corbusier, con il nuovo secolo appare comunque Berlino «il luogo dove si manifesta nel modo più radicale la nuova vita urbana», e ciò anche in virtù della sua già ricordata giovinezza rispetto ad altre capitali d’Europa. Se l’espressionismo è in vari centri tedeschi – non solo e inizialmente non tanto a Berlino – la temperie linguistico-culturale che accomuna diversi soggetti, collettivi e riviste, per i pittori della Brücke, allorché abbandonano il vitalismo nietzschiano del primo periodo di Dresda, passano alcune delle più graffianti critiche della società berlinese, trovando una sorta di emblema nelle celebri cocotte di Ernst Ludwig Kirchner. Altri pittori, come George Grosz, si incaricano di focalizzare il carattere oppressivo del versante più propriamente urbanistico della città, le sue periferie…, ma non per questo egli dimentica «banditi, assassini, sicari, uomini condannati, medici, ubriaconi e sifilici» che le popolano di notte, stando all’icastico elenco di Beth Irwin Lewis.

Anche Berlino, inoltre, come quasi mezzo secolo prima Parigi, conosce la sua insurrezione anticapitalista, con la proclamazione da parte di Karl Liebknecht, affiancato da Rosa Luxemburg, della Libera Repubblica Socialista il 9 novembre 1918. Benché l’esperienza duri ancora meno della Comune parigina, con quest’ultima vi sono evidenti analogie: dallo scoppiare in conseguenza di una guerra persa dal paese teatro dell’insurrezione – ora la Grande Guerra, da cui la Germania esce sconfitta – alla partecipazione degli artisti, che, per lo più provenienti dall’esperienza del dada, intendono, stando alla testimonianza del regista Erwin Piscator, trasformare l’arte in «un’un arma per la lotta di classe». Ma nel solco del rapporto arte-rivoluzione della Germania a cavallo tra anni Dieci e Venti vanno considerati anche i casi dell’Arbeitsrat für Kunst di Bruno Taut ‒ che riprende il programma del morrisiano socialismo della bellezza e quindi degli artisti della Comune ‒ e del Bauhaus di Walter Gropius, che nel manifesto del 1919, inneggia alla fantasia da portare nelle case delle persone comuni, benché di lì a non molto si muoverà in altre direzioni.

Lippolis sente a questo punto l’esigenza di aprire un’ampia parentesi sul mondo russo e sovietico nella consapevolezza che in esso si manifestino circostanze assolutamente anomale: come a Parigi e a Berlino anche a Mosca ed in altri centri dell’ancora impero zarista gli artisti conducono sperimentazioni che già aprono a un orizzonte rivoluzionario e, come in Franca e in Germania, anche in Russia l’occasione per una sovversione del potere costituito è data dal malcontento per una guerra rovinosamente persa, tuttavia questa volta la rivoluzione va a buon fine, o almeno così pare, fermo restando che in altro luogo Lippolis non manca di ricordare le lucidissime critiche della Luxemburg al leninismo, che con la sua concezione autoritaria del socialismo non starebbe costruendo altro che un capitalismo rovesciato. La storia immediatamente successiva si incarica purtroppo di darle ragione, dal momento che Lenin oppone decisamente all’immaginismo pre-rivoluzionario il produttivismo. I retrivi letterati della pittura come Kandinsky, Chagall, Malevič sono messi all’angolo, mentre i nomi che vanno per la maggiore sono Rodčenko, Tarabukin. Quest’ultimo ammira esplicitamente Taylor e Ford – come del resto lo stesso Lenin –, nonché, coerentemente, Le Corbusier. Nota Lippolis: «Il problema – che Tarabukin non sottolinea ma che a Lenin e ai bolscevichi è ben chiaro – è che quel consenso che il capitalismo occidentale ottiene tra le masse attraverso la fantasmagoria delle merci e il consumismo, nel socialismo sovietico deve essere garantito attraverso l’autorità e il controllo». Inutile dire che lo stalinismo non farà che radicalizzare ulteriormente tale processo, e anzi neanche il produttivismo, come si sa, coinciderà con le specifiche funzioni che l’apparato burocratico statale assegna alla produzione artistica.

Molto simile appare del resto, al netto del contesto differente, ciò che accade nella Germania di Weimar, diretta conseguenza del fallimento della rivoluzione spartachista. Il Bauhaus e lo stesso Gropius vengono convertiti al funzionalismo, mentre a pittori già lambiti dall’espressionismo e dal dada non resta che prendere atto attraverso le loro opere della miseria in cui versano i quartieri proletari sotto l’egemonia borghese che non è stata scalfita (Otto Dix), o prendere sempre più coscienza dell’asservimento dell’uomo alla tecnica, che si avviva a diventare universale e comprende in pieno anche la formalmente non capitalista Unione Sovietica (George Grosz). Sono gli anni di pellicole come le già citate Metropolis e Berlino. Sinfonia di una grande città, ma anche di progetti come La rivolta delle macchine o il pensiero scatenato del pittore belga Frans Masereel e dello scrittore francese Romain Rolland, «rovesciamento integrale della visione dei vari Le Corbusier, Tarabukin, Gastev e degli altri ideologi del taylorismo produttivo e sociale», il quale non può però che risultare indigesto al «positivismo tecnocratico dei primi anni venti» e pertanto come film non sarà mai prodotto.

La tecnolatria montante conosce quindi una sorta di acme nel nazifascismo e nei suoi lager, ma non certo nel senso che con la sua sconfitta il mondo abbia voltato pagina. Lippolis è troppo acuto per cedere alla retorica del nazismo come male assoluto avulso dai processi storici, ché questa è la falsariga sulla quale la cultura ufficiale odierna celebra se stessa. Il nazifascismo, in altre parole, non è che parte – benché forse la parte più nefasta – del trionfo della tecnica sull’uomo, fenomeno tanto ad esso contemporaneo quanto destinato a sopravvivergli, dal momento che anche le democrazie liberali e il bolscevismo partecipano della stessa logica. E ciò è testimoniato tanto dall’esempio negativo di Le Corbusier, la cui concezione architettonica si sposa perfettamente con l’ideologia nazifascista – se questi diviene sempre più organico al fascismo francese fin dalla metà degli anni Trenta, tanto da non esitare a collaborare col regime di Vichy, ancora nel 1940 scrive che «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa» – e non solo – visto che la Carta di Atene troverà la sua «consacrazione nella ricostruzione dell’urbanistica della ricostruzione postbellica» ‒, tanto da quello positivo di Ernst Jünger, che già all’indomani della prima guerra mondiale comprende come essa «abbia modificato per sempre la società occidentale nel senso del dominio della tecnica, del lavoro e della massificazione» e non esiste di fronte a questo più alcun discrimine tra destra e sinistra, autoritarismo e democrazia…

Curioso notare infine come Lippolis operi una sorta di inversione tra buono e cattivo rispetto a quello che è il suo campo culturale di riferimento in senso lato. Da una parte l’immagine progressista che ancora domina la figura di Le Corbusier viene profondamente scossa. Dall’altra il profilo di Jünger, oggi come ieri sovente guardato con sospetto dalla cultura di sinistra per il suo conservatorismo ed antimodernismo, appare profondamente riqualificato, anche in relazione alle sue simpatie politico-partitiche: «Una interpretazione distorta di Jünger ne ha fatto in quegli anni un punto di riferimento ideologico del nazismo, sebbene lui ne abbia subito prese le distanze rifiutando il seggio parlamentare che esso gli offrì appena conquistato il potere». In un tempo ‒ come quello in cui è uscito il libro di Lippolis ‒ di pandemia globale affrontata con linguaggi, oltre che non di rado con metodi, para-militari, e in un tempo – come quello in cui scrivo – dove non si parla che di guerra per motivi fin troppo noti, il discorso di Jünger riportato da Lippolis sul nesso tra «guerra e lavoro, il quale una volta terminate le ostilità, è stato fatto confluire in un nuovo ordine sociale basato sul lavoro stesso inteso come totalità dell’esistenza» assume una nuova, benché amarissima, attualità.

UN ASSAGGIO

Indice

7 Introduzione. L’urbanizzazione capitalista del mondo

19 Capitolo primo. La grande trasformazione urbana nel pensiero di Simmel, Kracauer, Benjamin

Georg Simmel e la vita spirituale dell’uomo nuovo metropolitano; Siegfried Kracauer e le grida nel vuoto delle strade berlinesi; Walter Benjamin e l’archeologia urbana del capitalismo avanzato

60 Capitolo secondo. Parigi, capitale del xix secolo

Faubourgs, passages, boulevards. Dalla Parigi delle classi pericolose all’operazione Haussmann; Lo spleen di Baudelaire contro la nascente metropoli; L’invenzione di un pubblico di consumatori e spettatori; Dalla guerra alle classi pericolose alla Comune; Arte, rivoluzione della vita quotidiana e lusso comune; L’eredità della Comune. Socialismo della bellezza e rivoluzione urbana; Dal ritorno all’ordine dell’impressionismo alla disciplina taylorista di Le Corbusier

137 Capitolo terzo. Berlin Babylon

Espressionismo e metropoli, un urlo tra apocalisse e rivolta; L’insurrezione di Spartaco. L’arte tedesca sulle barricate; Un’arte del popolo per il popolo. La cattedrale del socialismo; Un novembre di diluvio e rivoluzione. Il Dada berlinese; Intermezzo russo. Tra immaginismo e produttivismo nel “mondo nuovo” sovietico; Gli anni di Weimar. La disillusione rivoluzionaria e la città come fabbrica

247 Conclusione

Da Sodoma alla Nuova Babilonia, l’eredità difficile della grande trasformazione urbana

265 Bibliografia


 

Introduzione
L’urbanizzazione capitalista del mondo

Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia

Nei prossimi uno o due anni, una donna partorirà nello slum di Ajegunle a Lagos, un giovane abbandonerà il suo villaggio a Giava ovest per le mille luci di Giacarta, un contadino si trasferirà con la sua famiglia impoverita in uno degli innumerevoli pueblos jovenes di Lima. L’evento specifico in sé non sarà niente di speciale, e passerà del tutto inosservato. E però costituirà uno spartiacque nella storia umana, comparabile alla rivoluzione del neolitico o a quella industriale. Per la prima volta la popolazione urbana della Terra supererà numericamente quella rurale. In realtà, data l’imprecisione dei censimenti nel Terzo Mondo, con ogni probabilità questa transizione epocale si è già verificata (Davis 2006, p. 11).

Così, nel 2006, esordisce Il pianeta degli slum di Mike Davis, un’indagine sull’esplosione demografica delle megalopoli a partire dalle loro periferie. Davis mette in luce la portata di questa rivoluzione, sottolineando come, dal 1950 circa, la popolazione mondiale sia passata da due e mezzo a sette miliardi di persone e come le città abbiano assorbito due terzi di questo surplus umano. Concentrandosi sullo sviluppo urbano degli slum del terzo e quarto mondo, Davis insiste sulla sua relazione con il pessimo stato di salute del pianeta:

Così, le città del futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del Ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila anni fa (ivi, p. 24).

Sono passati pochi anni da quel 2006, ma l’intuizione di Davis sull’approssimarsi di uno spartiacque decisivo nella storia dell’umanità si sta svelando in tutta la sua drammatica attualità. Oggi, all’espansione esponenziale dell’urbanizzazione da lui descritta fanno riscontro dei mutamenti che pongono in discussione, come un’urgenza non più rimandabile, il futuro dell’umanità.
Una parte della comunità scientifica ha constatato il nostro ingresso in una nuova era geologica, caratterizzata dall’azione dell’uomo sulla biosfera e ribattezzata Antropocene, che ha messo fine ai circa undicimila anni dell’Olocene e i cui risultati smentiscono le “magnifiche sorti e progressive” dello sviluppo. Cambiamenti climatici, esaurimento delle risorse, sovrappopolamento, migrazioni di massa, guerre endemiche, pandemie come quella esplosa nel 2020 determinano uno scenario che non appartiene più alla fantascienza distopica. Mentre gli scienziati dibattono su quale sia da considerare la data di nascita dell’Antropocene, lo storico dell’ambiente Jason W. Moore ha sottolineato come questo processo “non è il risultato dell’azione umana in astratto – l’Anthropos – bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale” (Moore 2017, p. 29). A partire dalle pratiche mercantili globali e colonizzatrici nate a seguito della scoperta delle Americhe, il capitalismo si è dimostrato non solo un sistema economico, ma un vero e proprio “regime ecologico”. Per questo motivo, secondo Moore, la responsabilità della mutazione profonda delle condizioni di vita del pianeta dipende dal sistema di produzione e sfruttamento imposto dal capitalismo, tanto che egli ridefinisce la nuova era geologica Capitalocene, “l’Età del Capitale nella natura”, con ciò che ne consegue:

In breve, individuare le origini del mondo moderno nella macchina a vapore e nelle miniere di carbone significa dare la priorità alla dismissione delle stesse macchine e miniere (e delle loro incarnazioni del xxi secolo). Collocare le origini del mondo moderno nell’ascesa della civiltà capitalista a partire dal 1450, con le sue audaci strategie di conquista globale, mercificazione infinita e razionalizzazione implacabile, significa invece dare la priorità ai rapporti di potere, sapere e capitale che hanno prodotto – e ora stanno distruggendo – il mondo moderno come l’abbiamo conosciuto. Spegnere una centrale di carbone può rallentare il riscaldamento globale per un giorno; interrompere i rapporti che costituiscono la miniera di carbone può fermarlo per sempre (ivi, p. 42).

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