Diario della crisi infinita

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Christian Marazzi

pp. 191
Anno 2010
ISBN 9788894880119

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Descrizione

Christian Marazzi
Diario della crisi infinita
Prefazione di Franco Berardi Bifo

L’indefinito prolungarsi e globalizzarsi della crisi, la sua cronicità, la devastazione sociale di cui è all’origine, ci costringono a interrogarci sulla natura del capitalismo finanziario. Un capitalismo che si è imposto con la distruzione della società fordista alla fine degli anni Settanta e si è poi finanziarizzato a tal punto da stravolgere le stesse categorie di denaro, salario, profitto e rendita.
Se il lavoro salariato è andato in frantumi e lo Stato sociale è stato smantellato nella sua funzione di regolazione macroeconomica e sociale, se l’indebitamento privato ha preso il posto di quello pubblico nella creazione della domanda effettiva, se i mercati finanziari esercitano la loro sovranità al posto di quella statuale e se il denaro si è di fatto privatizzato per assecondare la sete di profitti delle imprese multinazionali e dei grandi investitori istituzionali, allora qualcosa di veramente profondo è accaduto in questi anni, qualcosa che ha intaccato alla radice la nozione stessa di capitalismo. Il capitale come rapporto sociale si è spezzato, la creazione di ricchezza è ormai incapace di generare crescita e benessere, mentre produce disuguaglianze vertiginose e sofferenza diffusa. Distruggendo la classe operaia fordista, il capitale ha distrutto al contempo quella dinamica che gli permetteva di crescere. Non c’è crollo, ma crisi come forma permanente di accumulazione e comando politico.
È con questa profonda trasformazione che si misurano i testi e gli interventi raccolti in questo volume, che non si limitano tuttavia all’osservazione e all’analisi degli eventi economici e politici degli ultimi anni, ma rimandano espressamente a una riflessione collettiva su come agire “dentro e contro” la crisi, lungo quali assi strategici, con quali obiettivi e modalità di lotta.

Christian Marazzi, economista, ha insegnato in diverse università europee e alla State University di New York. Attualmente insegna alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Tra i suoi lavori: Il posto dei calzini (Casagrande-Bollati Boringhieri 1999), E il denaro va (Bollati Boringhieri, 1998), Capitale & linguaggio (DeriveApprodi, 2002) e Finanza bruciata (Casagrande, 2009). Per i nostri tipi ha pubblicato Il comunismo del capitale (2010).

RASSEGNA STAMPA

“Doppiozero” – 6 Luglio 2015

Diario della crisi infinita
Recensione di Cristina Morini

Parafrasando liberamente il disinvolto e cinico Gordon Gekko del vecchio film Wall Street di Oliver Stone, “al massimo settantacinque persone in tutto il mondo” riescono a comprendere che cosa stia capitando davvero nel sistema economico globale. Nella grande con-fusione tra capitale e stato, cioè di fronte al dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e perfino sulle ragioni dell’etica, si genera un senso – puramente emotivo e intuitivo – di vertigine e di assedio. In un certo senso, la violenza strutturale dei meccanismi dell’economia contemporanea sfugge alle categorie della politica ma non a quelle del corpo-mente. Così, seguendo quella che si potrebbe definire un’ispirazione foucaultiana, il potere che ci mette in difficoltà con la crisi, la precarietà, il debito, noi lo sentiamo prima di tutto con i nostri corpi, attraverso i riverberi che si riflettono sulle nostre vite.

Il sentimento prevalente del nostro tempo è, dunque, la percezione, indistinta e soffocante, di un “divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità neoliberista”, per usare un’efficace immagine di Dardot e Laval tratta dal loro ultimo libro Del comune o della rivoluzione del XXI secolo (DeriveApprodi 2015), ovvero “la sensazione che non si possa più uscire da tale cosmo”. I discorsi “morali” che, a volte, vediamo dipanarsi a partire dalla descrizione delle nuove forme dell’organizzazione economica mondiale connessa alla crisi permanente, non riescono a rappresentare una difesa utile. Da questo punto di vista, non ha grande senso il rimpianto per l’età dell’oro del fabbrichismo, dell’economia “reale”, fondata su beni materiali e tangibili e contrapposta a una presunta, imprendibile e forviante, produzione “immateriale” contemporanea, che tutto avrebbe scombinato e corrotto. Tracciare una linea netta è pressoché impossibile, dovendo, tuttavia, tenere presente l’aspetto nullificante della convenzione finanziaria che sta alla base dell’intero processo: “Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-Impoverimento sociale-Più denaro […]. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla” (Franco Berardi, prefazione a Diario della crisi infinita di Christian Marazzi, ombre corte).

Gli abissi dei paradigmi imposti dall’economia finanziaria dell’oggi vanno allora scandagliati fino in fondo, leggendo soprattutto le ripercussioni che finiscono per avere sugli esseri umani nel loro essere materia prima e attori, a un tempo, dell’intero processo. Questo esercizio non può evitare di nominare e di misurarsi con sintomi ed effetti: la depressione, la paura, l’ignoranza, la guerra, la povertà, l’individualismo, la sopraffazione. Bisogna scavare profondamente per riuscire ad avere una visione: nelle ombre si nascondono sempre anche luci e finestre che possono aiutare la comunità umana a confrontarsi con il senso del suo esistere. Judith Butler direbbe che si tratta di partire dalla “malinconia della sfera pubblica”, che impone l’assoggettamento degli individui alle necessità del potere, per arrivare ad analizzare la natura del capitalismo contemporaneo che poggia sulla espansione progressiva della sfera dell’esclusione e dell’impoverimento.

Christian Marazzi nell’introduzione al suo ultimo libro Diario della crisi infinita (ombre corte) ricorda la scritta di un muro di Atene: “Non salvateci più”. La sofferenza sociale si materializza come incorporazione individuale e collettiva di più ampi processi storici e socio-economici. La critica politica, a partire dalla consapevolezza di tale rapporto, è premessa a ogni azione trasformativa. La recente conclusione della tesa trattativa tra il governo greco di Alexis Tzipras e le istituzioni europee e internazionali sul tema del debito è esempio impressionante della contraddizione tra politica ed economia ai tempi della plutocrazia finanziaria. La partita si gioca tra le resistenze insopprimibili della volontà di vita della società umana e le pulsioni di morte della frenesia dell’accumulazione capitalistica, ottusamente e tragicamente prigioniera del proprio stesso percorso autodistruttivo. Se stiamo al tema, di stretta attualità, in questo testo di Marazzi si trovano già preconizzate le conclusioni della negoziazione tra Troika e Grecia:

“La riduzione del costo del lavoro e del reddito sociale non hanno per nulla contribuito all’uscita dalla crisi, mentre hanno aumentato i debiti pubblici. Le politiche di austerità hanno permesso di instaurare un sistema di aiuti e salvataggio con la finalità di soccorre le banche, consentendo loro di rientrare da posizioni fortemente esposte sui debiti pubblici dei paesi periferici. Il problema si è adesso spostato dalle banche private agli stati. Lo si è visto con la Grecia: il tentativo di contrastare le politiche di austerità attraverso una riduzione del debito è stato neutralizzato dalla reazione alle proposte greche di paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna. Una politica di riduzione del debito pubblico greco, contratto con quegli stessi stati, non innesca alcun meccanismo di solidarietà. È questo il dato che ha paralizzato la negoziazione tra Grecia e le istituzioni della Troika”.

Differenze, riproduzione sociale, crisi del valore

Tutto ciò per dire che Christian Marazzi è un economista ma è soprattutto un filosofo e un visionario. Ha insegnato alla State University di New York e all’Università di Losanna e Ginevra, attualmente tiene corsi alla Université des sciences appliquées della Svizzera italiana. Nel Diario della crisi infinita si trovano raccolti suoi interventi, interviste, recensioni del periodo compreso tra il 2011 e i primi mesi del 2015. Ogni singolo testo rappresenta un tassello che compone il mosaico dello sviluppo globale e progressivo della crisi che, a partire dall’esordio della bolla dei subprime del 2007, con lo scorrere degli anni si approfondisce e si dilata, assumendo carattere “secolare”, vista la durata, e “strutturale”, poiché riguarda la natura stessa del capitalismo biocognitivo contemporaneo: la crisi è l’espressione del capitalismo biocognitivo contemporaneo, così come la fabbrica è stata quello del capitalismo fordista.

Questo ha dato forma a “una nuova realtà”, scrive Marazzi, “uno stato normale di bassa crescita potenziale, di cronica instabilità”. Ma soprattutto la crisi ha intaccato alla radice la nozione stessa di capitalismo: “Il capitalismo come rapporto sociale si è spezzato”, si spiega nel libro, “la creazione di ricchezza è ormai incapace di generare crescita e benessere mentre produce diseguaglianze vertiginose e sofferenza diffusa. Distruggendo la classe operaia fordista, il capitale ha distrutto al contempo quella dinamica che gli permetteva di crescere. Non c’è crollo, ma crisi come forma permanente di accumulazione e di comando capitalistico”.

Non è uno sviluppo lineare e uniforme, quello della crisi infinita, ma un’articolazione basata sulla differenza e sulle differenze, di territorio e di contesto, di condizioni, di genere, di migrazione, di eredità coloniale. Come Marazzi, del resto, ci ha insegnato qualche anno fa, nel suo prezioso testo Il posto dei calzini. La svolta linguistica nell’economia e i suoi effetti sulla politica (Bollati Boringhieri 1999), a partire dal paradigma prototipico del lavoro domestico e di cura, la comunicazione e il linguaggio assumono il carattere proprio, specifico, dell’economia contemporanea, al punto che è possibile parlare di una “svolta linguistica” all’interno della produzione. Questo ha voluto dire tenere esplicitamente conto anche del ruolo delle differenze e del ruolo, in senso più allargato, della riproduzione: il linguaggio ha infatti direttamente a che vedere con la capacità di relazione, i legami sociali, le normatività sociali, gli immaginari, i meccanismi emotivi e affettivi, il sapere di ciascuno e di ciascuna di noi. Marazzi ha sempre dichiarato di avere un debito con la teoria femminista e a nostra volta dobbiamo riconoscere il grande stimolo che i suoi lavori hanno rappresentato per tante, tra noi.

Negli scritti radunati in questo nuovo libro, diversi tra loro, c’è un filo conduttore che emerge chiaro nella lettura: questa crisi, per la prima volta nella storia, non è una crisi di sovrapproduzione né di crescita né di trasformazione tecnologica; non c’è interesse per la domanda, l’incremento attuale dei mercati finanziari, forse diversamente dagli esordi, si autoalimenta, può avvenire anche in presenza di profitti negativi. Crisi infinita, allora, proprio perché ingloba e assoggetta le infinite accumulazioni algoritmiche della produttività e della cooperazione sociale, cioè della ri-produzione sociale che è appunto produzione di linguaggio, relazioni, affetti, reti; crisi di misura del valore, o meglio crisi della misura oggettiva del valore (il che non significa l’abbandono della teoria del valore-lavoro); crisi delle forme di creazione del valore, dunque, in quanto crisi-cambiamento dei processi di produzione in termini “classici”, con precarizzazione, esternalizzazione, outsourcing, crowdsourcing (Moneta e capitale finanziario).

Questo introduce, di converso, l’idea di una necessaria modificazione di interpretazione, seguendo la quale la crisi della costruzione della misura può non essere spiegata solo in forma negativa, vale a dire solo nelle sue ricadute in termini di povertà e di debito ma, viceversa, come introduzione possibile – “anzi, necessaria”, dice l’autore – di una misura soggettiva del valore che “rimanda alla soggettività dei movimenti di lotta e alle forme di lotta e di vita che la sostanziano”. Si tratterebbe, insomma, di pensare una nuova “misura” generata dall’interno, da ciò che vogliamo e da ciò che sappiamo, e cioè dalla autonomia e dalla resistenza, in alternativa alla “misura” della violenza unilateralmente imposta dai mercati finanziari.

Il tono emotivo della resistenza

I mercati finanziari godono delle spogliazioni del welfare e dei servizi essenziali per l’esistenza (sanità, scuola, pensioni) operate da tutti gli stati sulla base del comando di un’autocrazia tanto metafisica quanto spietata: le public utilities sono indubbiamente uno degli obiettivi dei processi di privatizzazione in atto, che garantiscono entrate continue a chi ne acquista il controllo, cioè la possibilità di sfruttarle. Anche in questo senso, ancora più immediato, traducono al loro stesso interno la vita, le possibilità della sopravvivenza di tutte e tutti noi.

Ciò che muove i capitali, il sentiment dei mercati finanziari, è oggi totalmente autoreferenziale; è privo di un vero rapporto con il reale; è basato su convenzioni dominanti e sulla logica del contagio, “ossia sul mimetismo che travolge qualsivoglia aspettativa razionale” nella “razionalità della irrazionalità dei mercati”, alimentata da un deficit di informazioni. Mentre, viceversa, nei movimenti insurrezionali, di resistenza, di opposizione, esiste sempre un referente materiale ed esso è “il corpo sociale”. Così, se i mercati finanziari si basano sull’imitazione dell’Altro, su un astratto mimetismo che travolge ogni aspettativa razionale, dal lato opposto “tutte le forme di resistenza muovono dall’imitazione di se stessi, della propria singolarità. Una singolarità piena di desiderio di libertà e di autodeterminazione. Di voglia di vivere” (Maghreb e mercati finanziari).

Allora, anche spaziando tra i nuovi dispositivi assoggettanti approntati dal sistema, dalla genealogia della morale del debito e della colpa (con Nietzsche) al free work, che si espande durante la crisi infinita per fare fronte alle difficoltà di occupazione, all’incremento dei lavori inutili – attività amministrative e di controllo sui lavori altrui – andranno sempre individuate le “tonalità emotive” (la passione, il coinvolgimento, le reti sociali, gli spessori affettivi) che comunque muovono i soggetti e di conseguenza la necessità di “dare valore pubblico e riconoscimento a situazioni altrimenti destinate all’invisibilità sociale” (Free work, ovvero lavoro non pagato).

Da questo punto di vista, secondo Marazzi, costruire oggi modelli alternativi, ovvero “un progetto di insubordinazione, di mobilitazione che riguardi l’uomo indebitato, l’uomo sicurizzato, l’uomo mediatizzato, l’uomo rappresentato” significa anche pensare la possibile costruzione di una “moneta del comune”, ovvero uno strumento finanziario differente e autodeterminato. Nel definire la “moneta del comune” va tenuto presente il processo generato dalla riproduzione sociale, qui intesa come centro della valorizzazione contemporanea. Ma, ancor più praticamente, è utile guardare ai “processi di espropriazione, di privatizzazione di beni che sono essenziali”. Proprio l’esempio della Grecia può rendere più vicina tale prospettiva.

Marazzi infatti specifica: “La moneta del comune è un programma politico che si pone in alternativa alle politiche monetarie” con la “distribuzione della liquidità direttamente ai cittadini europei, cioè fuori dai circuiti finanziari, fuori dalla trappola del debito pubblico e privato. Non è escluso che il primo passo nella direzione di questa moneta sia fatto proprio in Grecia, una Grecia che ha bisogno di un’Europa che rispetti la sua autodeterminazione e riconosca l’urgenza di andare oltre la miseria dell’austerità” (La moneta del comune).

Per rompere la cappa dell’obbligo, fondato sulla nostra incolpevole incoscienza, al consenso verso il rigore del deficit spending che è parte assoluta del processo di governo del presente, va approfondita la riflessione sulle cause, sugli strumenti e sulle risorse necessarie per superare non solo la presente crisi infinita, ma l’intera impostazione economica in cui essa è maturata. Puntando anche su invenzioni, forse ancora parziali ma importanti, per introdurre l’idea di un possibile cambio di rotta, l’apertura di un’epoca nuova, la perlustrazione di nuovi territori ecologicamente abitabili dai nostri corpi, oltre le lande sterili e mortifere del capitalismo.


Intervista – Radio Svizzera Italia

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UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione – L’angelo sterminatore
di Franco Berardi Bifo

13 Introduzione

Diario della crisi

21 Maghreb e mercati finanziari: la logica del contagio
24 Globosclerosi
28 Ciclo, bolle e comune
34 Il vuoto di sovranità in Europa
38 Cinque domande sulla crisi
50 I benefici del deficit e del debito
52 Appunti su bce, euro e scenari futuri
59 Populismo strutturale
61 Stato d’eccezione permanente
63 Ghiaccio sottile
65 Moneta e linguaggio
67 Ma quale modello tedesco
69 The Power of Fear
72 Free work, ovvero lavoro non pagato
74 L’invenzione dei lavori inutili
76 Dalla colpa alla dignità
78 QE con IQ
80 Inversione di flusso

Interviste

85 Stato del debito, etica della colpa
91 Il baratro dell’economia liquida
96 Dalla crisi dei Brics all’esplosione dell’euro: problemi e prospettive
105 Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza in Europa
111 Il corpo tossico della finanza
116 La nemesi storica del capitale
126 La guerra diffusa della crisi

Recensioni

137 Paradisi fiscali, un altrove solo apparente
140 Un orizzonte sovranazionale per rompere la trappola del debito
143 Il bilancio in rosso di un continente
147 La moneta corrente del liberismo
150 Effetto comune per la ricchezza
154 La ricchezza di Thomas Piketty
158 Fuga dall’austerità

Interventi

163 Moneta e capitale finanziario
177 La moneta del comune
184 Composizione di classe


Prefazione
L’angelo sterminatore
di Franco Berardi (Bifo)

Questo libro di Christian Marazzi non è solo un diario dell’involuzione “austeritaria” che sta distruggendo la società europea, è anche un’indagine sugli effetti della piena realizzazione di un modello che lo stesso Marazzi aveva cominciato a delineare venti anni fa, ne Il posto dei calzini.
Nel 1994 quel libro anticipava gli effetti dell’integrazione linguistica dei processi produttivi, e al tempo stesso cartografava concettualmente il duplice mutamento che la svolta linguistica del capitale comporta.
Il primo aspetto del mutamento consiste nella sussunzione della dimensione comunicativa, affettiva, relazionale all’interno del processo di valorizzazione. Il secondo aspetto è la transizione che porta il denaro ad assumere sempre più una funzione pragmatica in quel ciclo della comunicazione umana che siamo abituati a chiamare “economia”.
A partire dagli anni Novanta, la ricerca di Marazzi converge con la ricerca di quei filosofi del linguaggio che cercano di capire come il verbo si faccia carne, primo tra tutti, naturalmente Paolo Virno.
Il denaro è un caso particolare ma anche esemplare del farsi carne del linguaggio, ovvero del farsi merce del segno monetario. Lo sviluppo di questa analogia tra denaro e segno linguistico ci ha portato però molto lontano. Vediamo dove.
Uno dei punti di partenza della riflessione di Marazzi, negli anni in cui Il posto dei calzini stava formandosi nella sua mente, è stato un breve testo di Vittorio Mathieu, che nel 1988 fungeva da introduzione all’edizione italiana di un libro di Marc Shell dal titolo Money Language and Thought.
In questo breve testo, Mathieu scriveva che “il denaro agisce non per una vis a tergo, bensì per una previsione, dunque per una rappresentazione di ciò che (ancora) non c’è, che può ben chiamarsi  idea, nel senso non platonico ma anglosassone della parola”.
Pur partendo da queste considerazione, Marazzi però va ben oltre. Quelle parole di Mathieu permettevano di capire che il denaro funziona come previsione, come promessa, come ingiunzione, se vogliamo. Ma il denaro di cui parla Mathieu è pur sempre soltanto una rappresentazione di ciò che ancora non c’è, un’idea, come dice lui stesso.
La svolta linguistica, la transizione a quella forma compiuta di finanziarizzazione che a me piace chiamare “semiocapitale” comporta qualcosa di più. Qualcosa di decisivo in più. Il denaro non è più soltanto rappresentazione, non funziona più soltanto per la sua valenza semantica. Esso acquista una forza pragmatica diretta in quanto si fa agente semiotico capace di attivare una catena di implicazioni linguistiche indissociabili dalla sfera della produzione e dell’accesso al consumo.
Dal momento che “le tecnologie comunicative […] sono dispositivi che concorrono a fare il mondo della nostra esperienza sociale”, allora “non è più possibile misurare la produttività del lavoro separatamente dalla produttività del linguaggio”.
Tutto bene? Sì, ma fino a un certo punto, perché la produttività del linguaggio implica simulazione, menzogna, inganno, violenza, insomma l’intera gamma delle risorse illusionistiche e coercitive di cui il potere dispone.
Analizzando la strabiliante avventura del cavalier Berlusconi con uno sguardo ironico e volto a comprendere, piuttosto che con sguardo moralistico volto a condannare, ne Il posto dei calzini Marazzi aveva scritto: “la menzogna fa parte dell’arsenale linguistico comunicativo che utilizza per produrre beni e servizi”.
Quando il denaro era strumento di interpretazione e di valutazione quantitativa, quando funzionava solo semanticamente, aveva un potere di rappresentazione e di promessa. Ma ora, grazie all’integrazione delle tecnologie di comunicazione con il processo di produzione, il denaro funziona pragmaticamente. Non più solo come misuratore del valore, ma come produttore di valore. È quel che chiamiamo finanziarizzazione.
Saskia Sassen si esprime in termini particolarmente chiari quando dice che il denaro “funziona sempre meno come un mezzo di scambio e sempre di più come uno strumento con cui i governi e le corporation estraggono risorse dalle famiglie per volgerle a loro vantaggio spesso passando sopra i bisogni fondamentali della popolazione di un intero paese”.
Marazzi aveva anticipato tutto questo processo quando, nel suo libro del 1994, aveva denunciato “l’insufficienza della scienza economica nelle analisi delle trasformazioni in atto, in’insufficienza che deriva dalla stessa ‘missione’ dell’economia, il suo obiettivo di eliminare dal campo della sua indagine l’analisi politica del potere e dei suoi effetti sulle grandezze micro e macro-economiche”.
La violenza della finanza entra in campo come attore principale del dramma economico nel primo decennio del secolo nuovo. In Finanza bruciata (un libro del 2009 che esce l’anno successivo in America col titolo The violence of financial capitalism), il nucleo essenziale della sistematica predazione di cui siamo testimoni e vittime è sintetizzato in due righe: “Allo stato, cioè alla collettività, i titoli tossici, ai privati le good banks! È la solita musica: socializzare le perdite e privatizzare i benefici”.
Ma se di questo processo vogliamo ricavare tutte le implicazioni, ecco che la dinamica fondamentale del capitalismo comincia ad apparirci in una luce nuova. Non mi risulta (ma posso sbagliare) che qualcuno abbia lavorato su questo punto, nemmeno Christian Marazzi, che pure in una lezione tenuta il 23 marzo del 2012 all’Università di Bologna si lasciò sfuggire alcune considerazioni tanto azzardate quanto a mio parere preziose.
Da buoni marxisti, siamo abituati a pensare che il processo di accumulazione del capitale passi attraverso l’estrazione di plusvalore, ma prima ancora attraverso la produzione di beni utili che vengono immessi sul mercato per poterli scambiare con denaro, in modo tale che questo denaro vada a pagare il salario dell’operaio e a incrementare il profitto del capitalista.
Il capitalista borghese della passata società industriale doveva dunque produrre qualcosa di utile (o meglio, doveva indurre l’operaio a produrre qualcosa di utile) se voleva realizzare quello scambio da cui dipende la realizzazione del valore e quindi l’estrazione del plusvalore.
Ma nella sfera del capitale finanziario stiamo assistendo a un fenomeno difficilmente spiegabile nei termini dell’analisi di Marx. La dinamica dell’accumulazione di capitale ha assunto una forma che assomiglia sempre di più al gioco delle tre carte, o forse a uno scherzo che non fa ridere.
L’inceppamento del ciclo tradizionale della crescita è dovuto a fattori tutti interni al processo produttivo: incremento tecnologico della produttività, riduzione del tempo di lavoro necessario, aumento della disoccupazione, saturazione dei mercati, riduzione e tendenziale blocco della crescita.
Come può dunque continuare l’accumulazione di capitale se si ferma la crescita? Da un punto di vista marxista risponderemmo che non ha più ragion d’essere l’accumulazione, dal momento che il lavoro e l’intelligenza collettiva sono in grado di sopperire ai nostri bisogni senza più bisogno della pulsione costante verso l’espansione. Ma visto che i marxisti hanno perduto la partita del xx secolo, ecco che la riposta a quella domanda viene da un nuovo ceto proprietario, che deve la sua ricchezza alla produzione semiotica (alla proiezione, interpretazione, scambio, previsione di segni monetari), e che ha creato le condizioni per realizzare enormi incrementi di capitale senza produrre alcun bene utile.
Marx non immaginava che si potesse creare valore senza passare attraverso la mediazione di oggetti utili. Eppure ci troviamo oggi di fronte a un modo di accumulazione che realizza incrementi di capitale senza scambiare nulla di utile. Com’è possibile? Da dove proviene quel più di valore che il ceto finanziario ha realizzato negli ultimi anni, durante i quali, sia detto per inciso, la diseguaglianza ha raggiunto vertici mai prima immaginati?
Quel pomeriggio del 23 marzo, nell’aula terza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, forse scherzando con quel risolino un po’ amaro e nervoso che certe volte gli scappa, Marazzi disse che forse dobbiamo abbandonare l’ipotesi del plus-valore per adottare l’ipotesi del minus-valore.
Il suo intervento compare riscritto verso la fine di questo volume col titolo Moneta e capitale finanziario. Nella stesura definitiva del saggio l’espressione “minus-valore” non compare. Me la sono sognata io o forse l’Autore ha deciso di non riproporre un’intuizione piuttosto bizzarra. Forse stava scherzando, ma in vino veritas.
Interpreto liberamente il pensiero di Marazzi e sviluppo questo punto del quale mi assumo intera la responsabilità.
Cos’è il minus-valore? Diciamolo così: nei passati due secoli i lavoratori, pungolati dal bisogno, ricattati dal salario e sfruttati da un padrone, hanno prodotto un mondo di beni, quelli che ci permettono di vivere, di consumare, di viaggiare e di fare molte altre attività divertenti. C’è di più: essi continuano a farlo, perché in ogni parte del mondo ogni giorno ci sono milioni di lavoratori che producono beni fisici e beni semiotici. Essi rendono accessibili e fruibili le risorse della natura, essi inventano tecniche utili a ridurre la fatica, a curare le malattie eccetera, eccetera.
Ma la massa dei beni prodotti nei due secoli passati e dei beni che ogni giorno continuiamo a produrre sembra di notte ridursi, dissolversi, impoverirsi, languire, quasi sparire. Un quarto dell’apparato produttivo è sparito in Italia, mentre il sistema scolastico di questo paese è ridotto a un moncherino pietoso. In Spagna metà dei giovani debbono vivere di accattonaggio oppure emigrare. In Grecia le donne colpite dal tumore al seno che dieci anni fa venivano curate senza difficoltà, debbono oggi affrontare un calvario e sempre più spesso prepararsi a morire. E lo stesso succede dovunque, anche se di tanto in tanto viene fuori un cretino a comunicarci che la ripresa è alle porte. La vediamo negli Stati Uniti d’America la ripresa di cui si parla. Grazie a politiche più ragionevoli di quelle suicidare dell’austerità adottate in Europa, l’amministrazione Obama è riuscita a far ripartire l’occupazione. Ma il giornalista Frank Bruni ridimensiona l’entusiasmo avvertendo: “I nuovi posti di lavoro non sembrano essere così solidi come quelli del passato. Occorrono più ore di lavoro per avere lo stesso salario, o per sostenere lo stesso stile di vita. Gli studenti accumulano debiti. La mobilità verso l’alto sembra sempre più un miraggio, un mito”.
Occorrono più ore di lavoro (molte più ore di lavoro) per avere lo stesso salario, per comprare le stesse merci e gli stessi servizi di un tempo. Perché? Perché la dinamica del capitalismo finanziario funziona come un’idrovora che succhia di notte quel che noi produciamo di giorno, funziona come un buco nero in cui scompare il prodotto di duecento anni di lavoro industriale. Ecco cos’è il minus-valore: accumulazione di capitale a mezzo di distruzione del prodotto comune.
Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-impoverimento sociale-più Denaro.
Questa è l’origine del buco nero che sta dissipando velocemente l’eredità del lavoro industriale e delle stesse strutture della civiltà moderna. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla.
Qualcuno ci salverà dall’angelo sterminatore? Al momento il salvatore non lo vedo.
Ma nel libro che state per leggere, Marazzi compie due operazioni parallele: da un lato analizza la “globosclerosi”, il succedersi ininterrotto di bolle di espansione seguita da collassi, nonché la crisi europea in cui il ciclo finanziario è divenuto fattore di regolazione antisociale. Dall’altro lato però tiene d’occhio il manifestarsi di insorgenze soggettive che interferiscono con la governance finanziaria e con il processo di impoverimento che ne consegue. Il diario che state per leggere comincia con un articolo del 2011 in cui si getta uno sguardo particolare sui paesi arabi che erano in quell’anno in ebollizione. Come sappiamo, l’ebollizione del 2011, lungi dal fermare l’offensiva finanziaria, si è risolta in un’involuzione soggettiva e talvolta addirittura in una catastrofe. Marazzi però non pare qui alla ricerca di una via d’uscita politica, ma piuttosto di un’invenzione sociale e insieme epistemica che riapra il gioco e lo sovverta proprio nel punto più ambiguo e più elusivo: il denaro, la ridefinizione del rapporto tra attività e misura.
Nel saggio su Moneta e capitale finanziario, che si trova verso la fine di questo volume e svolge con ampiezza l’argomentazione teorica che sorregge tutto il libro, leggiamo queste parole: “occorre affrontare il problema della misura. La misura oggettiva del valore, probabilmente, non è più possibile. Possibile, anzi necessaria, è la misura soggettiva del valore, e questa rimanda alla soggettività dei movimenti di lotta, e alle forme di lotta e di vita che la sostanziano”.

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