Carteggio 1933-1963

 23.00

Hannah Arendt

pp. 277
Anno 2015
ISBN 9788897522928

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Descrizione

Hannah Arendt e Kurt Blumenfeld
Carteggio 1933-1963
Introduzione di Laura Boella

Che cosa dobbiamo o vogliamo ancora sapere di Hannah Arendt, dopo anni di studi fondati su scritti editi e inediti? Dai diari e dai carteggi ci si attende il disvelamento dell’aspetto privato della vita di un pensatore o delle sue idee allo stato nascente. Nel caso di Hannah Arendt, ci si trova di fronte a qualcosa di più complesso, a sentieri interrotti del suo pensiero. Come se questioni vissute dal vivo incontrassero un limite insormontabile nella loro formulazione teorica e potessero venire espresse per illuminazioni, per esperimenti di pensiero, solo nel contesto di una relazione, come quello della lettera o dell’insegnamento.
Tutto questo si può dire anche per uno degli aspetti più controversi della vicenda intellettuale di Hannah Arendt, il suo rapporto con l’ebraismo, al centro del carteggio con Kurt Blumenfeld, amico e figura di grande rilievo nella maturazione del pensiero politico della filosofa tedesca. L’ebraicità di Hannah Arendt si gioca interamente sul confine tra vita e pensiero e per questo motivo i carteggi sono particolarmente adatti a metterne in luce i dilemmi esistenziali e intellettuali. Sono la viva testimonianza delle “amicizie politiche” che nutrirono la sua vita e il suo pensiero, e nelle quali essa diede prova di grande maestria, e insieme di una drammatica ambiguità.
“Battute anacronistiche, aspri commenti, esagerazioni: il carteggio tra Hannah Arendt e Kurt Blumenfeld dovrebbe essere letto come antidoto ai tentativi di ridurre la grande pensatrice a un’icona che mette tutti d’accordo” (dall’Introduzione di Laura Boella).

Hannah Arendt (1906-1975). Emigrata a Parigi all’avvento del nazismo, nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti. Ha insegnato presso le università di Chicago, Berkeley, Princeton e, dal 1967, alla New School for Social Research di New York. È autrice di numerosi lavori, tra i quali: Le origini del totalitarismo, Responsabilità e giudizio, Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, Sulla rivoluzione e Vita activa.

Kurt Blumenfeld (1884-1963). Leader sionista di origine ebraico-tedesca. Nel 1909 fu segretario della Federazione Sionista della Germania (ZVfD). Dal 1911 al 1914, Segretario generale della Federazione Sionista Mondiale e dal 1924 al 1933 presidente del ZVfD. Nel 1933 fugge dalla Germania. Dopo diversi anni di viaggi a New York si trasferisce in Palestina nel 1945.

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Introduzione
di Laura Boella
27 Carteggio 1933-1963
269 Cronologia di Hannah Arendt 271 Cronologia di Kurt Blumenfeld
273 Indice dei nomi


 

Introduzione
di Laura Boella

1. Eros e politica dell’amicizia

La notte scorsa ho sognato Kurt Blumenfeld – per la prima volta in vita mia, credo. Nel sogno lo incontravo inaspettatamente su un bel ponte nel bosco. Si levava dalla bocca il sigaro per baciarmi. Gli dicevo: sei veramente tu? Non posso mica farmi baciare da un estraneo. Ma lo dicevo ridendo. – Nel sogno non sapevo che era morto. Mi sono svegliata ridendo. Per la gioia del ritrovamento inatteso.

In questo brano del diario arendtiano (9 novembre 1968) domina la grazia di una delle storie di almanacco di Johann Peter Hebel, dal titolo Ricongiungimento insperato, che aveva affascinato Walter Benjamin, Ernst Bloch e Martin Heidegger. Nella storia di due giovani sposi, fidanzati il giorno di Santa Lucia, il tempo subisce vertiginose inversioni, va avanti e torna indietro, attraverso cinquant’anni di guerre, rivoluzioni e catastrofi naturali, mettendo in scena il corpo a corpo tra la morte e la caducità dell’esistenza umana e il loro nocciolo di eterno, l’amore, la giovinezza. “Poco prima o poco dopo San Giovanni” viene infatti ritrovato il corpo intatto del giovane morto in miniera. La simultaneità tra lo scorrere del tempo, simboleggiato dalla promessa sposa ormai “grigia e rattrappita”, e l’irrompere improvviso del passato nella forma della giovinezza immutata del suo fidanzato, mette in luce la fatale ironia legata all’incompiuto, al mancato che intessono la trama della vita.
Hannah Arendt incontra Kurt Blumenfeld in sogno, cinque anni dopo la sua morte avvenuta nel 1963, nell’atmosfera della poesia e della letteratura tedesca che, come ricorda nella famosa intervista a Günter Gaus, posta in the back of the mind, era l’unico linguaggio che le permettesse di esprimere le cose più intime. Il sogno non è per nulla consolatorio, anzi è particolarmente straniante. Kurt Blumenfeld, l’amico di una vita, il mentore nelle questioni ebraiche che vuole baciarla, potrebbe essere un estraneo, ma in realtà l’estranea è lei, che amava atteggiarsi a schubertiana “fanciulla straniera” quando veniva interrogata sulla sua nascita ebraica. Il riso, che sembra dare leggerezza al fantasma dell’estraneità, è anche la straniante risposta all’inatteso, a ciò che va in controtempo rispetto alla realtà dell’irrevocabile, e ne mette in luce, come la morte, i vuoti, le fratture, il mancato, ciò che non si è voluto o potuto fare. La “passione della notte” non svela segreti, ma fa parlare la realtà che la “legge del giorno” tiene faticosamente sotto controllo, aveva scritto Hannah Arendt nel capitolo sui sogni del libro dedicato all’ebrea tedesca Rahel Varnhagen. Il sogno raccontato nel diario non potrebbe infatti essere più trasparente nel ricapitolare l’immagine di una straniera in esilio, lontana dalle sue radici, dall’ambiente della sua formazione, che a molti fece l’impressione di essere un’estranea, fredda quando gli altri cedevano alla mozione degli affetti, crudelmente ironica e beffarda nella sua volontà di comprendere, eppure tenace e disarmante nell’esprimere il suo bisogno vitale di relazione sognando un impossibile incontro insperato sulla scena del tutto anacronistica di un lied romantico.
Che cosa dobbiamo o vogliamo ancora sapere di Hannah Arendt, dopo anni di studi fondati su scritti editi e inediti? Dai diari e dai carteggi ci si aspetta il disvelamento dell’aspetto privato della vita di un pensatore o delle sue idee allo stato nascente. Nel caso di Hannah Arendt, ci si trova di fronte a qualcosa di più complesso, a sentieri interrotti del suo pensiero, come quello riguardante l’etica, espresso in corsi di lezioni o nella corrispondenza con Mary McCarthy, e mai elaborato compiutamente. Come se questioni vissute dal vivo – la riflessione sull’etica diventa cruciale nel contesto della “polverizzazione dei criteri morali” emersa con il totalitarismo e la Shoah – incontrassero un limite insormontabile nella loro formulazione teorica e potessero venire espresse per illuminazioni, per esperimenti di pensiero, solo nel contesto di una relazione, come quello della lettera o dell’insegnamento.
Lo stesso si può dire di uno degli aspetti più controversi della vicenda intellettuale di Hannah Arendt, il suo rapporto con l’ebraismo, al centro del carteggio con Kurt Blumenfeld. Ci sono tracce ebraiche e, se ci sono, quali, nella pensatrice ormai annoverata tra i “classici” del Novecento? Per rispondere a questa domanda, non è sufficiente seguire la strada biografica, e nemmeno quella di un’analisi della derivazione delle sue idee sulla politica dalla riflessione sul totalitarismo e sulla persecuzione antiebraica. Sposata in seconde nozze con un non ebreo, Heinrich Blücher, e impegnata in molti modi nelle questioni della politica ebraica, Hannah Arendt è stata la prima a dare una formulazione paradossale della sua ebraicità. Essere ebrea fu per lei un vincolo di appartenenza, mai rifiutato, ma non identitario, che si tradusse nel compito critico di opporsi all’astrazione del popolo ebraico, che riteneva fosse l’errore comune all’assimilazionismo, al nazionalismo sionista e all’antisemitismo. D’altra parte, Hannah Arendt si sentì sempre un’ebrea tedesca, ossia fece ricorso a un’appartenenza al mondo non ebraico, in particolare a quello della cultura europea, nel senso né di un’identificazione né di una separazione radicale, bensì dell’affermazione della differenza ebraica all’interno di una prospettiva che comprendeva l’intera storia dell’Occidente. Da questa paradossale ambivalenza trae origine la linea di pensiero seguita in relazione alla politica ebraica e esplosa con violenza a proposito del caso Eichmann: interpretare la diaspora, l’esilio e la Shoah come un’esperienza morale e politica dal significato universale e non solo ebraico. Recenti studi, ricerche d’archivio e interventi sollecitati dal successo del film di Margaret von Trotta, Hannah Arendt, mostrano che si tratta di una questione per nulla risolta, che i tagli netti, le cesure interne, le contraddizioni del discorso arendtiano contribuiscono in ampia misura a tenere aperta.
L’ebraicità di Hannah Arendt si gioca interamente sul confine tra vita e pensiero e per questo motivo sono particolarmente adatti a metterne in luce i dilemmi esistenziali e intellettuali i carteggi, vive testimonianze delle “amicizie politiche” che nutrirono la sua vita e il suo pensiero, e nelle quali essa diede prova di grande maestria, e insieme di una drammatica ambiguità.
Hannah Arendt attribuiva un valore politico all’amicizia in quanto la considerava una forma vissuta di politica, la scena in cui ne andava direttamente, non di opinioni o dottrine, ma della sperimentazione di gesti e parole, visibili e ascoltati, che “fanno” mondo, danno realtà e significato alla relazionalità umana. L’amicizia era il luogo per eccellenza del senso originario della libertà, e del suo organo principale, il kantiano “pensiero allargato”, ossia della capacità di tener conto del punto di vista altrui, e così facendo, di mettere in movimento le contraddizioni, i dissensi e i dilemmi connaturati alla pluralità delle prospettive, alle differenze che abitano il mondo. Attraverso le amicizie politiche Hannah Arendt gettò “ponti” (ricordiamo l’immagine del sogno) con il mondo tedesco della sua formazione (in particolare con Karl Jaspers e arditamente con Martin Heidegger) e con il mondo ebraico, come avvenne con Gershom Scholem e con Kurt Blumenfeld. In amicizie di questo tipo emergono discussioni sulla distruzione dell’ebraismo europeo, sulla responsabilità del popolo tedesco e sulla fondazione dello Stato d’Israele in un contesto internazionale travagliato dal maccarthismo in America, dai sommovimenti del mondo arabo e dal progressivo inasprirsi del conflitto tra ebrei e palestinesi. Esse furono gestite tra le due sponde dell’oceano, tra l’America, la vecchia Europa e la piccola terra di Palestina, poi spartita con il beneplacito delle grandi potenze, e coltivate soprattutto per via epistolare, con in mezzo brevi incontri ritagliati acrobaticamente in un fitto tessuto di conferenze, visite, impegni editoriali. L’amicizia con Gershom Scholem e con Kurt Blumenfeld rappresenta in particolare il “ponte” con la realtà drammatica dell’ebraismo dopo la Shoah, e per questo motivo vive di una forte tensione legata al fatto che la lettera, intesa come esercizio infinito di dialogo, da un lato, presuppone il mondo su cui si addensano avvenimenti politici, catastrofi, ideologie, dall’altro, è essa stessa un mondo di relazioni intime, di affetti, di desideri di vedersi e di parlarsi, di malattie e di difficoltà economiche, nonché di incomprensioni e di risentimenti, che la lontananza spesso inasprisce.
La politica dell’amicizia era un’impresa molto difficile e spesso contraddittoria in seguito alla sua premessa, l’estraneità e lo sradicamento. Le amicizie politiche arendtiane nascono infatti all’insegna del ritrovamento dopo la separazione dell’esilio, dell’insperata possibilità di riannodare i fili spezzati di relazioni intrecciate negli anni giovanili. Prima di venire sognato, il ritrovamento inatteso era stato vissuto più volte da Hannah Arendt, e le aveva permesso di preservare la continuità della sua esistenza e delle sue emozioni. La condizione di ebrea tedesca esiliata viene trasformata in questo modo nell’unica possibilità di vivere attivamente, cioè politicamente, una situazione non scelta e non voluta. E ciò voleva dire rifiutare qualsiasi identificazione con il mito del popolo che dall’esilio tornerà infine nella terra promessa. In questo contesto, l’amicizia acquista un valore decisivo, essendo l’unica cosa che resta a chi ha perso tutto. In una lettera a Kurt Blumenfeld (2.8.1945) Hannah Arendt dice di conoscere bene il “sentimento di angoscia” che si prova nel ritrovare i vecchi amici e lo collega alla situazione dei bohemiens “che si portano appresso il proprio ambiente” e “sanno che la loro sensibilità non è protetta da nessuna biblioteca e da nessun mobilio”. Scrivendo a Jaspers più di dieci anni dopo (16.11.1958), essa parla di una sorta di pelle che cresce all’esterno e protegge dall’urto diretto con le cose e con le persone, permettendo al tempo stesso di preservare la propria sensibilità. Nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Lessing (1959), la passione di quest’ultimo per la polemica viene descritta con lo stesso movimento:

[…] quando gli uomini si stringevano per riscaldarsi l’un l’altro, si staccavano da lui. Ma lui che amava la polemica al punto di andarla a cercare, non poteva sopportare la solitudine tanto quanto la prossimità eccessiva di una fraternità che cancellava tutte le distinzioni.

L’amicizia politica non aveva dunque garanzie se non la relazione di amicizia stessa, e al tempo stesso metteva in mezzo tra gli amici il mondo, e quindi il confronto, la critica, la presa di posizione sulla politica degli Stati, delle grandi potenze, sulle ideologie e sul potere. Un’amicizia del genere si muoveva inevitabilmente “sul filo del rasoio”, e poteva incorrere nell’errore, nella freddezza, nell’astrattezza, poteva essere troppo esigente o intransigente. Nel momento in cui si infrangeva sugli scogli dell’inconciliabile divergenza di opinioni, come avvenne per esempio con Gershom Scholem che ripudiò, analogamente a Kurt Blumenfeld, le tesi espresse nel saggio Ripensare il sionismo (1944), Hannah Arendt continuava a difenderla strenuamente.

I rapporti umani sono per me molto più importanti delle ‘affermazioni pubbliche’. In questo caso Lei mi ha attribuito più provocazione di quanto fosse giusto e equo. Forse potrebbe decidere di comportarsi in questo caso come me; ossia che gli uomini hanno più valore delle loro opinioni, per il semplice motivo che gli uomini de facto sono più di ciò che pensano o fanno.

Mettendo a nudo il valore vitale che per lei avevano le relazioni, Hannah Arendt ammette tuttavia l’esistenza di una duplicità tra opinioni espresse in pubblico e “rapporti umani”. Questo doppio registro affonda le radici nel desiderio di alleggerimento del peso di conflitti umanamente distruttivi, ma sottovaluta il fatto che le relazioni non stanno sospese nel vuoto (sia pure chiamato “umanità”), ma si nutrono di emozioni, di parole che provocano, di riconoscimenti e misconoscimenti.
Hannah Arendt era ben consapevole di muoversi sul filo del rasoio e adottò politiche diverse nelle sue diverse amicizie. Decisiva fu la presenza dell’”eros dell’amicizia” nel rapporto con Blumenfeld, la cui tonalità emotiva è prevalentemente intima, familiare. Il rischio dell’amicizia politica non escluse lacerazioni, ma venne significativamente affrontato con una scelta precisa, quella di lasciar fuori dalle lettere i dissensi e le divergenze legati a prese di posizione pubbliche. La dura reazione di Blumenfeld all’articolo sul sionismo fu, per esempio, affidata a una lettera scritta all’amico Martin Rosenblüth. In questo caso la corrispondenza si interrompe, vicenda del resto abbastanza frequente in relazioni di questo genere. Il silenzio è tuttavia molto eloquente perché fa emergere il lato in ombra degli scritti arendtiani, il tessuto intricato di esperienze e di relazioni da cui nasce il suo pensiero, la cui elaborazione presuppone tuttavia che le emozioni e i vissuti, suoi e di altri, vengano consegnati a un piano totalmente distinto, e a volte, almeno nelle lettere, stranamente ingenuo. Il rapporto epistolare con Blumenfeld riprenderà in virtù dell’“eros dell’amicizia”, che risuona costantemente nelle lettere tra i due, e pur nella tenerezza, è il segno più visibile dell’incompiutezza, di ciò che manca ed è forse fallito nella relazione.
Coltivare tra le due sponde dell’oceano relazioni di amicizia non sempre in armonia con i nuovi incontri nell’ambiente americano, voleva dire mettere alla prova la capacità di nutrirsi intellettualmente di contraddizioni anche molto profonde. E ciò fu possibile sulla base della premessa già ricordata, quella di creare un diaframma rispetto alla sensibilità a fior di pelle, ossia rispetto all’io più intimo, di allontanarsi, di andare contro la corrente dell’ebraismo ufficiale, ma anche delle passioni e del mondo simbolico che a esso si ricollegavano, in nome di una prospettiva etico-politica che riguardasse l’intera storia europea. Dopo anni di studi e di ricerche sulla vicenda intellettuale arendtiana, è ormai chiaro che la volontà di “comprendere”, l’autonomia di pensiero, che ne rappresentano la cifra e l’eredità, nascono sulla base di laceranti fratture e drammatiche ambiguità. […]

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