M. Cannarella, F. Lagomarsino,
L. Queirolo Palmas
Hermanitos
Vita e politica di strada tra i giovani latinos in Italia
 
Inviato speciale - radio uno
Trasmissione del 26/01/2008 Ascolta


LA PACE DEGLI HERMANITOS Sono giovani immigrati latino americani, si chiamano hermanitos e abitano nei quartieri a rischio delle nostre citta'. Per anni si sono fatti la guerra, divisi per bande. Finche' non si sono incontrati per decidere di rinunciare alla violenza

di CECILIA RINALDINI
http://www.radio.rai.it/radio1/inviatospeciale/index.cfm



ALIAS - il manifesto - 10 novembre 2007

INTERVISTA - GIOVANI LATINOS IN ITALIA
All'arme sicurezza

di Emilio Quadrelli

L'uscita del volume Hermanitos. Vita e politica della strada tra i giovani latinos in Italia, a cura di Massimo Cannarella, Francesca Lagomarsino e Luca Queirolo Palmas (Ombre Corte, Verona 2007), offre l'occasione per raccontare qualcosa di poco convenzionale intorno ad alcuni attori, le gang di strada dei giovani sudamericani, la cui esposizione e stigmatizzazione mediatica è diventata moneta corrente nei nostri mondi.
Riuniti intorno al progetto "Reconocer las organizaciones de la calle" il coraggioso e preparato gruppo di ricercatori dell'Università di Genova si è proposto un duplice obiettivo: condurre una ricerca sulla Strada partendo dalla medesima, trasformando gli attori sociali in parte costitutiva e costituente della ricerca, emancipandoli così dal tradizionale ruolo subalterno di "oggetto della ricerca "; iniziare un percorso di coming out degli stessi, al fine di legalizzare la loro postazione, individuale e di gruppo, all'interno della nostra società. Un progetto politico il cui fine dichiarato è rompere le gabbie politiche, sociali, economiche, culturali e giuridiche in cui i giovani delle gangs sono abitualmente confinati.
Sorte che li accomuna a gran parte degli individui estranei ed esterni alla "fortezza Occidente".
Pare opportuno, pertanto, offrire al lettore una breve panoramica del frame che fa da sfondo alla vita di strada degli immigrati sudamericani e dell'Ecuador in particolare. A parlare è G., un giovane clandestino il cui stile di vita può essere considerato paradigmatico per quote cospicue delle popolazioni immigrate dal Sud America.

Quali attività svolgono gli emigrati dall'Ecuador?

La maggior parte di noi è gente che lavora. Come facchini, muratori, operai nei traslochi, qualche altro come idraulico, elettricista, fabbro, tornitore, oppure passa da un lavoro all'altro un po' come capita. Com'è il lavoro lo sanno tutti. Oggi c'è, domani forse, dopodomani chissà. In certi periodi stai sotto 12, 14 ore al giorno, in altri riesci a fare mezza giornata ogni tre giorni, quando ti va bene. Le donne lavorano nelle imprese di pulizia, nelle case, nelle cucine dei ristoranti, nelle pizzerie e nei bar. Certe stanno nelle piccole fabbriche. Quelle che stanno nelle case, di solito lavorano di più. Queste sono le cose che facciamo abitualmente.

Eppure, in non pochi casi e specie tra i più giovani, la presenza di attività illegali è stata accertata. Non ti sembra una contraddizione rispetto a quanto hai appena affermato?

No e posso spiegare facilmente il perché. A volte, ed è vero, perché sarebbe stupido nasconderlo, qualcuno di noi fa anche qualcosa di illegale. Ma non diversamente da tantissimi italiani. Per vivere tutti devono trovare il modo di arrangiarsi, a parte i ricchi. Non sempre c'è lavoro e non sempre quello che guadagni è sufficiente per vivere. Le paghe sono quelle che sono e anche lavorando non è mica sempre facile far tornare i conti. Le case, che sono uno dei nostri problemi principali, costano tantissimo e se sei clandestino costano ancora di più, perché in quanto clandestino paghi tutto più caro anche se, in ogni lavoro, guadagni meno degli altri. I clandestini sono un business per tanti. Un clandestino è facile da ricattare, gli si possono imporre condizioni di vita e di lavoro che un altro difficilmente accetterebbe. Tutto senza contare le volte che hai lavorato ma i soldi della paga, per averli, te li devi andare a prendere con il coltello in mano.

Puoi spiegare un po' meglio quest'affermazione?

Quello di doversi andare a prendere i soldi che ti spettano con la forza è una cosa che capita con una certa frequenza. È successo a me e a molti altri. L'ultimo caso, dove non c'ero solo io ma altri tre miei connazionali, è capitato poco tempo fa.
Tramite un nostro conoscente avevamo trovato lavoro in una ditta edile che aveva preso un lavoro per ristrutturare un'attività commerciale. Tre piani che da bar, ristorante e pizzeria dovevano essere trasformati per ospitare un grosso punto di vendita. Con annesse altre attività. Un lavoro di 4 mesi. Un lavoro lungo perché, a parte le strutture portanti, abbiamo dovuto cambiare completamente gli interni. Il primo mese siamo stati pagati regolarmente, ma già alla fine del secondo cominciano a saltar fuori i problemi. Il capo della ditta, invece di darci la paga intera, ci dà solo un acconto in attesa che gli paghino un'altra tranche del lavoro. Così arriviamo alla fine del terzo mese, quando il tipo ci liquida il resto del mese precedente e sì e no la metà del terzo mese. Tira fuori la solita scusa che l'azienda che gli ha commissionato il lavoro è in ritardo con i pagamenti e che, sul momento, lui non dispone di liquidi per pagarci. Ci assicura che alla fine dei lavori tutto si sarebbe aggiustato.
Per noi, però, questo vuol dire precipitare nella merda. Chi glielo va a dire al padrone di casa, a quelli del gas e della luce, che adesso soldi non ne hai ma tra due mesi forse sì? Chi glielo va a dire a quelli del supermercato quando vai a fare la spesa? Sei nella merda e in qualche modo devi venirne a capo.

Quindi?

In quel periodo tutti noi abbiamo dovuto arrangiarci in qualche modo. Cose non troppo grosse, ma che ci hanno consentito di tirare avanti. Io e un altro abbiamo fatto un paio di colpi in appartamento, e con quello che abbiamo trovato siamo riusciti a pagare le spese che era impossibile rimandare.Un altro si è aggiustato un po' con la coca, ne vendeva qualche grammo in giro per i locali. In un modo o nell'altro siamo riusciti a tirare avanti. Chiusa questa parentesi, torniamo a parlare di quello che è successo sul lavoro. Arriviamo alla fine del quarto mese, che in realtà si protrae di un'altra settimana. C'era stato un imprevisto con le tubature dell'acqua, allora avevamo dovuto spostare un paio di gomiti che ci hanno fatto allungare parecchio i tempi e quindi ritardare la piastrellatura finale. Quindi, a quel punto, dobbiamo riscuotere un mese intero più una settimana e tre domeniche, oltre alla metà del mese prima che era indietro. Nella nostra stessa condizione ci sono tre rumeni che hanno lavorato con noi per tutto quel periodo. Loro vanno a farsi pagare prima di noi e ricevono la bella sorpresa. Il padrone non ha intenzione di dargli niente, e per di più li minaccia di farli arrestare come clandestini e perché secondo lui si sono rubati degli attrezzi della ditta. In particolare li accusa di essersi portati via un paio di trapani, dei cacciavite, delle chiavi inglesi e del rame. Per non correre il rischio di una qualche reazione violenta da parte loro si fa accompagnare da tre tipi piuttosto tosti che assistono al colloquio giocherellando con dei tubi innocenti. Il messaggio è fin troppo chiaro: non provateci neanche perché vi spacchiamo le ossa. I tre rumeni, incazzati ma impotenti, se ne tornano indietro senza un soldo. Li incontriamo per strada e ci informano di quello che è successo. Non ci vuole molto a capire che con noi la storia sarà la stessa. Se vogliamo i nostri soldi, e a quel punto anche con gli interessi, dobbiamo agire in qualche modo senza però destare sospetti. Decidiamo di andare dal capo per farci pagare come se non sapessimo nulla. Arriviamo e anche con noi si ripete la stessa storia. Allora ce ne torniamo indietro, apparentemente con la coda tra le gambe.Come dite voi: gliela diamo calda. È chiaro che se vogliamo i nostri soldi dobbiamo andarceli a prendere.

In che modo decidete di agire?

Sappiamo ovviamente dove il tipo ha l'ufficio, ma non dove abita. In ufficio abbiamo visto che prende sempre qualche precauzione, ma non è detto che faccia la stessa cosa a casa sua. Per fortuna abbiamo qualche buon amico italiano. Il tipo, se dovesse accorgersi di essere seguito da qualche sudamericano potrebbe insospettirsi, per questo chiediamo a questi nostri amici di filarselo al posto nostro. Non ci mettono molto per ottenere le informazioni necessarie. Il palazzo dove abita non è una fortezza, ma comunque è ben protetto. Telecamere, videocitofoni, doppia cancellata e una vigilanza armata notturna che va in giro con una certa frequenza, anche dentro al palazzo. Un lato debole, in parte, è il garage dove è possibile beccarlo abbastanza tranquillamente.Ma ci sarebbero dei problemi che per noi sono troppo grossi. Bisognerebbe prenderlo, portarlo da qualche parte e così via. Una storia che è completamente al di fuori della nostra portata. Allora scegliamo di entrargli in casa di notte, scalando il palazzo e calandoci dal tetto. Tra le varie soluzioni questa è la più facilmente realizzabile. L'unico rischio è di essere visti mentre scali, ma c'è un lato del palazzo che rimane quasi tutto fuori della visuale di chi passa per strada, così scegliamo quella via. Entriamo in azione verso le 5 del mattino. La scalata non è troppo difficile, solo nell'ultimo pezzo c'è qualche rischio di troppo: il tetto è abbastanza sporgente e non possiamo salirci sfruttando l'appiglio. Bisogna tenersi con una mano sola e con l'altra fare pressione, quindi mollare l'appiglio e aggrapparsi velocemente anche con la seconda mano al cornicione. C'è per forza un momento quando tutto il peso sta solo su un braccio, e per di più, nel momento in cui molli l'appiglio, il corpo comincia a ciondolare per aria. Se non sei svelto rischi di finire giù. Comunque pensiamo di farcela. Solo uno, quello più pesante, rischia, perché non riesce ad afferrare subito il cornicione e allora penzola un po', ma alla fine trova la presa e riusciamo a salire sul tetto tutti e tre. A quel punto c'è da fare l'operazione inversa: dal tetto calarci nella casa del padrone. Non è complicato, basta oscillare e farsi cadere in avanti stando attenti a calcolare bene i tempi dell'altalena. Bisogna prendere un po' di velocità e poi, nel momento in cui il corpo torna indietro verso la facciata del palazzo, lasciarsi andare. Finisci dentro il terrazzino per lo slancio. Il vero problema è il rumore. E così prima di calarci fasciamo le scarpe con uno spesso strato di stracci e panni. Atterriamo su uno dei terrazzini senza far casino, forziamo la finestra del bagno e siamo in casa.

E a quel punto?

Gli piombiamo in camera da letto, dove sta dormendo con la moglie. Lo scrolliamo e gli puntiamo il coltello alla gola. Lo stesso facciamo con lei. Prendiamo tutto il contante che ha in casa e gli oggetti di valore poi, mentre uno di noi resta in casa con la donna, io e l'altro ce lo portiamo dietro con tutti i suoi bancomat e le carte di credito e andiamo a incassare il resto. Mezz'ora dopo abbiamo in tasca le nostre paghe, con un bel po' di interessi. Col suo cellulare chiamiamo l'altro rimasto a casa, gli diciamo che è tutto ok e che può raggiungerci. Dopo una ventina di minuti lo molliamo. Non ne abbiamo più saputo nulla.

GANG E CRIMINE

Un racconto che solo coloro che hanno un'idea a dir poco approssimativa del mondo della Strada possono ritenere più vicino alla fiction piuttosto che al sobrio resoconto "etnografico". Per gli abitanti della Strada esperienze simili, però, sono solo piccoli e abituali paragrafi del loro romanzo di formazione, a tal punto che stentano a capire perché qualcuno arrivi a prendersi la briga di raccontare ciò che, per loro, è semplice routine quotidiana. Se il mondo del lavoro migrante, ai cittadini può apparire quasi bizzarro e al limite dell'esotico e in fondo qualcosa che non li tocca, è probabile che, di fronte al rapporto tra sudamericani e criminalità, mostrino un maggiore interesse. La presenza di feroci gang criminali in lotta per il governo e il monopolio delle attività criminali su interi territori, infatti, sono temi all'ordine del giorno. Affrontare di petto con G. la questione criminale appare pertanto un passaggio obbligato. Il resoconto che ne esce non è privo di interesse perché, oltre a mostrare il continuo intreccio tra città legittima e illegittima descrive una realtà che per essere resa al meglio dovrebbe ricorrere al J. Ellroy di L.A. Confidential piuttosto che ai limitati mezzi letterari a disposizione del ricercatore sociale.

L'equazione gang sudamericane/criminalità organizzata è diventata un'opinione al limite dell'ovvio e del banale. Le gang oltre a essere le principali responsabili della maggior parte degli atti criminali consumati in città avrebbero messo le mani anche sul fiorente giro della cocaina scatenando una guerra in piena regola per averne il monopolio. La cocaina, indubbiamente, è uno dei principali business in corso. Puoi raccontare come funziona e com'è organizzato?

Tra tutte le cazzate che si dicono su di noi c'è la storia della cocaina. Saremmo noi ad avere in mano il grosso del business della cocaina e, per di più, staremmo anche spargendo in giro il terrore per diventare i padroni del mercato. Allora forse è bene spiegare alcune cose sulla storia della cocaina. Storie che tutti conoscono ma che nessuno racconta mai, tanto è vero che, sui giornali e alla tv, le cose sono raccontate esattamente alla rovescia. Nei giri della coca ci sono due livelli. Uno piccolo e diffuso, che è praticamente impossibile da definire. Gente che vende ce n'è una marea e ogni giorno che passa aumenta sempre più. Per due motivi. La richiesta è talmente alta che, specie durante i fine settimana, o prima di una giornata festiva, anche chi abitualmente la vende non riesce a stare dietro alla domanda. Ci sono pusher, e la cosa succede praticamente sempre, che per non far andare fuori di testa quelli che gliela chiedono, e che in certi momenti danno proprio di matto, sono costretti a vendergli persino quella che si erano tenuta per loro. Così poi sono loro che si devono sbattere, se vogliono farsi una pista. Quindi, di coca in giro non ce n'è mai abbastanza. Per questo a venderla si mettono in tanti. In più, c'è un altro aspetto che mi sembra importante: la gente ha sempre più bisogno di soldi e vendere un po' di coca, anche solo facendosi un piccolo giro, è un modo per risolversi qualche problema. Tanti che prima compravano e basta adesso si sono messi a comprare e a vendere. Magari lo fanno solo con i loro amici, 10-15 persone, non di più. Non fanno i pusher per soldi, maper continuare a fare la stessa vita di prima che non erano più in grado di reggere. E così possono continuare a tirare e a girare per i locali andando in pari o guadagnandoci persino qualcosa. Questi nuovi pusher sono esclusivamente ragazzi e ragazze italiani che, forse solo un anno o sei mesi prima, non si sarebbero mai sognati di mettersi in storie come queste. Fino a poco tempo fa i piccoli giri di coca li facevano solo gli stranieri. Un po' come ti ho spiegato prima. Per alcuni di noi è un modo per arrotondare le entrate. Adesso però anche tanti italiani sono in quelle condizioni, e in più sono abituati a un tipo di vita alla quale non vogliono rinunciare, solo che di soldi in tasca ne girano pochi anche a loro. Così mettersi a trafficare un po' di coca è diventata la soluzione per tanti. Se sono aumentati quelli che vendono, il numero dei consumatori è almeno triplicato quindi nella vendita di strada nessuno finisce con il pestare i piedi all'altro. Il vero problema è sempre quello di averne abbastanza, non certo la concorrenza.

A quanto sembra di capire, stiamo parlando di un livello di illegalità diffusa i cui attori appartengono a diverse fasce sociali che difficilmente sembrano in grado di svolgere un ruolo significativo nei giri che contano. Eppure i giri importanti ci sono. Questi come agiscono?

Quelli di cui ho parlato sono gli aspetti più superficiali. Quelli di cui tutti parlano, perché di quello che capita sul serio, di chi ha del potere, nessuno lo vuole dire perché, come si sa, cane non mangia cane, e chi potrebbe parlare è inutile che lo faccia, tanto nessuno lo sta a sentire e per di più finirebbe in un mare di casini. A parte le cazzate da poco conto dei piccoli pusher, la verità è che il giro grosso era in mano agli sbirri, ma adesso ho letto che un po' di questi li hanno arrestati e quindi non so come stiano le cose. E quelli erano gli sbirri che continuavano a darci addosso e a mettere in giro le notizie su di noi. Non so dirti se, e su quali basi avevano degli accordi con i giornalisti, però secondo me qualcosa sotto doveva esserci altrimenti tanti episodi sono difficili da spiegare. Sui giornali uscivano delle cose su di noi, come la storia che avevamo in mano interi territori dove nessuno poteva mettere piede senza correre il rischio di subire qualche sopruso o dover pagare una tangente anche per respirare. A noi era stata accollata la colpa di quello che abitualmente faceva quel gruppo di sbirri. In certe zone loro la facevano da padroni terrorizzando tutti e tutto,mase andavi dietro a quello che scrivevano i giornali era tutta colpa nostra.

LA VOCE DEI GIORNALI

Vale la pena di confrontare quest'ultima sua affermazione con una sintetica carrellata di titoli delle principali testate genovesi relative al fenomeno gang, così come sono state riportate dagli autori di Hermanitos: "I conquistadores delle strade. Scontri fra bande sudamericane. Delitto in centro. Fra gli immigrati divampa la guerra per la supremazia territoriale " (Il Secolo XIX, 11.11.2003); "Otto bande in marcia sulla città. Regime paramilitare e legge della strada dominano i gruppi. Oltre 500 ragazzi ecuadoriani si sono spartiti il territorio. La polizia li ha censiti e identificati" (Il Secolo XIX, 2.12.2003); "Allarme: i ragazzi con la pistola. Il fenomeno delle gang sudamericane che si dividono il territorio " (La Repubblica, 6.2.2004); "Piccoli Banditi. Baby gang cresce, l'allarme da Guayaquil con furore" (La Repubblica, 6.4.2004); "Attacco alla criminalità. Dopo l'escalation di rapine e l'espansione delle bande giovanili parte la controffensiva. Le gang che spaventano la città" (Il Secolo XIX, 10.5.2004); "Scontro tra bande, Sampierdarena in stato d'assedio. (Il Secolo XIX, 15.12.2004.); "La legge delle gang nel centro storico. Genovesi in fuga" (Il Secolo XIX, 3.9.2004); "Genova paura nei vicoli. Lasciati in mano alle gang sudamericane " (Il Secolo XIX, 2.9.2004). La costruzione del frame sicuritario, che nelle parole del nostro gatekeeper trova riscontri empirici non secondari, più che la risultante di dati oggettivi appare come la messa in circolo di un ordine discorsivo dove diversi poteri: politici, economici, mediatici e militari trovano comuni convergenze. Ascrivere e confinare le popolazioni extraoccidentali al mondo delle classi pericolose permette non solo l'utilizzo di un facile capro espiatorio, ma di legittimare un modello di "città coloniale " all'interno delle metropoli globalizzate.
Ed è quanto, senza troppi fronzoli, emerge dalle parole del nostro intervistato.
Il modo di comportarsi degli sbirri lo conoscevano tutti. Razzisti e prepotenti. Prendevano la gente per strada, la chiudevano in 4 o 5 in un vicolo o in un portone e a forza di calci e pugni si facevano dare le informazioni che gli interessavano. Innanzitutto pippavano come matti, tanto che la donna sbirra che girava con loro la prima volta che l'ho vista l'ho presa per una tossica e anche di quelle malmesse. Con quelli di noi che facevano un po' di coca si filavano il posto dove la tenevano e poi facevano irruzione portandosi via tutto quello che trovavano, soldi, roba, se erano belli persino i vestiti, e poi o se ne andavano dopo aver dato una bella ripassata a chi avevano trovato oppure eseguivano l'arresto dichiarando però sempre, sì e no, un decimo di quello che avevano trovato. Sia di roba, sia di soldi. Arresti ne facevano comunque molti, perché gli conveniva farli per sembrare efficienti davanti a tutti, così poi dimostravano che la droga girava solo da parte nostra e potevano farsi tranquillamente i cazzi loro. E poi gli sbirri avevano anche parecchie altre coperture e inciucci.

Di che tipo?

A parte il numero infinito di testimonianze che ti potrei riferire, almeno uno di questi episodi l'ho visto e ascoltato in diretta. Una volta ero su un'impalcatura dove stavo lavorando e probabilmente nessuno mi notava. La via dove avevamo messo i ponteggi era molto stretta e le voci salivano in alto con facilità, quindi sentivo chiaramente quello che si diceva in strada. All'incontro c'erano tre sbirri insieme a un uomo e a una donna. I due fanno parte del giro dei comitati dei cittadini, quelli che un giorno sì e l'altro pure sparano qualche cazzata su noi, invocando continuamente una maggiore presenza di sbirri in giro. L'obiettivo dell'incontro era concordare un'operazione di bonifica nella zona. I comitati avrebbero iniziato a mettere in preallarme l'opinione pubblica sul grave stato della sicurezza in quella zona della città. Per farlo disponevano di parecchi mezzi: volantini e manifesti da appendere in giro, pagine intere sui quotidiani locali, tre trasmissioni sulle emittenti tv locali che avrebbero dato continuamente risalto alla gravità della situazione, interventi di denuncia di alcuni esponenti politici in comune e in provincia, per poi indirizzare l'attenzione, in tutta la città, verso le zone che interessavano a loro. Uno degli sbirri ha obiettato alla donna che, per un'operazione simile, occorrevano consensi e coperture ampie. La donna lo ha tranquillizzato subito dicendogli che, su quello, potevano contare su appoggi a 360 gradi. Alla bonifica della zona erano interessati tanto i politici dell'opposizione quanto quelli della maggioranza e, soprattutto, lo erano le realtà economiche che spingevano in quella direzione. Ambiti che mantenevano ottimi rapporti con tutti i rappresentanti politici, senza distinzione di parte. Loro dovevano solo dare maggiore enfasi alla cosa continuando a fermare e arrestare gente, in modo da fornire ulteriori riscontri alla campagna che avevano progettato. Una volta creato il clima ci sarebbero stati una serie di botti per far precipitare ancora di più la situazione. E infatti, poco tempo dopo, sono iniziati a succedere incidenti un po' ovunque, risse, provocazioni, pestaggi con la conseguente caccia alle gang.

LE COMUNITÀ D'ORIGINE

Osteggiati dalla società legittima, le gang non hanno migliore sorte con la parte "sana" della loro "comunità". Le organizzazioni di strada, per lo più, ancora prima di entrare in conflitto con l'etnia italiana devono vedersela con la parte rispettabile della loro comunità nazionale.

Puoi spiegarci il perché?

Il problema è il controllo che loro, quelli che si sono autoproclamati i rappresentati della comunità, vogliono avere su tutti. Chi non sta al gioco, chi non vuole farsi comandare, comincia a essere considerato un nemico, qualcuno che danneggia la comunità. Quello che raccontano è più o meno questo: tutto andrebbe bene se non ci fossero queste teste di cazzo che, con il loro modo di comportarsi, ci mettono in cattiva luce con gli italiani. Il problema non è il razzismo, il problema siamo noi della strada. In questo modo non fanno altro che confermare, dandole ancora maggiore valore, tutte le cazzate che si scrivono su di noi anzi, alle loro parole, viene dato un peso ancora maggiore perché vengono dall'interno della comunità. Non sono frottole. Un paio di questi si sono messi d'accordo con una stronza di giornalista che da noi o nei posti dove stiamo nessuno l'ha mai vista e le hanno dato gli argomenti per scrivere una serie di porcate da far venire la nausea. Ci siamo ritrovati un'intera pagina di cronaca cittadina dedicata a noi, con le interviste a questo gruppo di nostri connazionali infami. Le interviste non erano inventate ma riportavano fedelmente le parole di questi nostri rappresentanti, lo abbiamo potuto accertare in seguito, e il succo della questione era che il posto dove abitualmente stavano molti di noi era diventato un inferno per tutti ma soprattutto per i sudamericani onesti e lavoratori perché noi, banditi e teppisti, imponevamo la nostra legge e prepotenza a tutti. Riportato nero su bianco in questo articolo si parlava dei sudamericani onesti e lavoratori che non ne potevano più della teppa che li circondava. In questomodo si fanno belli con gli sbirri e i politici. Fanno di tutto per dividerci in buoni e cattivi, dove i buoni sono quelli che gli obbediscono senza fare storie mentre chi si ribella, perché vuole vivere senza padroni e avere i suoi diritti, lo rappresentano come un bandito da abbattere. Il vero problema di tutta questa situazione è il potere da una parte e i soldi dall'altra. Le due cose vanno insieme. Attraverso il potere possono governare e se governano possono guadagnare senza dover mai faticare. Le organizzazioni di strada, tra l'altro, sono anche una forma di resistenza a tutto questo ed è perciò che sono così mal viste da certi nostri connazionali.

LA DICHIARAZIONE DI GENOVA

È all'interno di tale scenario tutt'altro che roseo che i latinos, supportati dal gruppo di ricerca dell'Università di Genova e dal Centri Studi Medi, hanno portato a termine un percorso di legalizzazione, un vero e proprio coming out delle organizzazioni di strada nel tentativo di normalizzare una condizione continuamente sottoposta alle più svariate forme di stigmatizzazione. Un percorso iniziato ufficialmente con la Dichiarazione di Genova, il 18 giugno 2006 nella prima riunione non clandestina delle gang, tenuta presso la Sala Chiamata del Porto, luogo storico del movimento operaio genovese e della sua categoria maggiormente nota e rappresentativa, i portuali. Un passaggio formale " che vale la pena di riportare per intero: (18 giugno 2006) Noi, riuniti nella Sala Chiamata del Porto, luogo simbolico di conquista dei diritti per il movimento operaio, proponiamo la seguente dichiarazione. L'incontro, da cui nasce la Dichiarazione di Genova, è il risultato di un lungo percorso di mediazione che ha visto partecipare giovani membri delle organizzazioni di strada, ricercatori, amministratori pubblici, operatori dei media, rappresentanti delle forze dell'ordine in diverse città del mondo. 1. Negli ultimi anni, a partire da alcuni episodi marginali di violenza urbana, si è creata una situazione di paura che ha pregiudicato la vita quotidiana dei giovani latinos presenti in città così come la loro possibilità di convivenza nella società genovese. 2. La riduzione del fenomeno a una questione di ordine pubblico, con la conseguente ondata di arresti e carcerazioni, non hanno contribuito a risolvere i problemi esistenti né favorito la partecipazione dei giovani latinos alla vita pubblica; al contrario ha alimentato nuovi processi di discriminazione e stigmatizzazione. 3. Le organizzazioni di strada non sono associazioni criminali ma esperienze di partecipazione comunitaria di cui sono protagonisti ragazzi e ragazze banditi dalla società, sia per il colore della pelle, sia per la mancanza di documenti, sia per il modo di vestire, sia per la marginalizzazione nel lavoro e l'accesso alle politiche sociali. 4. L'esistenza stessa di queste organizzazioni giovanili in diverse città del mondo testimonia il desiderio di trovare uno spazio in cui manifestare liberamente le proprie culture, in società che spesso sono profondamente ingiuste e discriminanti nei loro confronti. 5. Questi desideri di riconoscimento e legittimità vanno al di là delle organizzazioni di strada qui riunite e coinvolgono la maggioranza dei giovani latinos e non solo. 6. Riteniamo che il modo migliore per affrontare con successo una difficile situazione di convivenza urbana sia perseguire con determinazione, e con il sostegno di una pluralità di attori, la strada intrapresa a Barcellona. Una strada che si articola su queste linee di azione: la ricerca attiva della non violenza, l'emersione e il riconoscimento dei gruppi come associazioni giovanili, la costruzione di una legalità basata sulla pace, il rispetto dei diritti e la giustizia. 7. L'assemblea riunitasi domenica 18 giugno nella città di Genova, cui hanno partecipato la Nazione dei Re e delle Regine e l'Associazione Neta, dimostra che è possibile perseguire una soluzione non violenta dei conflitti attraverso la mediazione sociale. 8. Tutti i presenti alla Sala Chiamata del Porto di Genova si impegnano a portare a buon fine questo percorso di emersione, riconoscimento, non violenza. I ricercatori sociali qui presenti si impegnano ad accompagnare questo processo, fornendo strumenti di formazione e creando le condizioni opportune affinché i giovani coinvolti ne siano i veri protagonisti. (Latin Kings and Queens Genova, Asociacion Neta Genova, i ricercatori del progetto "Reconoscer las organizaciones de la calle" (Mauro Cerbino , Flacso/Ecuador, Luca Queirolo Palmas, Disa/ Università di Genova; Luis Barrios, Cuny/New York; Carles Feixa, Ciimu/Barcellona), Hermanito Jaime (Asociacion Neta New York), King Mission (Alkon Usa), Queen Melody (Asociacion cultural de los Reyes y de las Reinas Latinas, Barcellona), King Onix (Alkon Bruxelles). Tre mesi dopo, il 18 settembre 2006, il felice percorso iniziato alla Sala Chiamata del Porto sembra avviato verso un esito impensabile: le gang incontrano un ministro della Repubblica, Paolo Ferrero titolare del dicastero della Solidarietà Sociale. Nel Teatrino degli Zingari, presso la Comunità di San Benedetto al Porto si consuma un evento che dovrebbe rappresentare un'autentica svolta e non solo per le gang dei giovani sudamericani. Sono in molti a pensare che quell'atto, simbolico e formale, possa sancire l'inizio di una vera e propria discontinuità, rispetto alle logiche seguite dai governi precedenti, nei confronti della cosiddetta questione immigrazione. Le buone intenzioni ci sono tutte e, apparentemente, da entrambi le parti. La dichiarazione delle gang, al proposito, non sembra lasciare dubbi: "A tre mesi dal primo incontro alla Sala Chiamata del Porto e dal congresso dei Giovani, Migranti, Latinos, intendiamo proporre un bilancio del progetto, nonché illustrare al Ministro gli esiti e le prospettive del percorso di emersione, riconoscimento e non violenza avviato dalle organizzazioni della strada dei giovani latinos a Genova. In particolare vogliamo mettere in evidenza i seguenti elementi di riflessione: 1. Il processo di mediazione e riconoscimento, apertosi a giugno con la Dichiarazione di Genova e che ha permesso di mettere fine ai conflitti fra i gruppi, si è sviluppato in questi mesi con numerose iniziative promosse dalle organizzazioni della strada dei giovani latinos; 2. La mediazione non violenta dei conflitti si rivela una strada vincente nonché "a basso costo" rispetto a una pratica esclusivamente repressiva che, nei due anni passati, non ha arginato la violenza né tanto meno messo fine all'esistenza stessa delle organizzazioni della strada; 3. Il processo partito a Barcellona nel novembre 2005, arrivato a Genova nel giugno 2006, sta producendo effetti analoghi a Guayaquil, a Madrid e a New York. In molti di questi luoghi la chiave del successo è rappresentata dal coinvolgimento delle Università e delle Amministrazioni Pubbliche; 4. Riteniamo che l'esperienza genovese rappresenti una pratica di eccellenza che può servire da esempio per altri contesti simili. Le organizzazioni della strada si impegnano a provare la fattibilità di questo percorso anche a Milano..." (Associazione Neta (Genova), Alkon (Genova), i ricercatori del progetto "Riconoscere le organizzazioni della Strada). A poco più di un anno di distanza le aspettative che quell'incontro aveva posto in cantiere sono a dir poco naufragate e non certo per colpa delle gang. A Genova, come nel resto del paese, il sicuritarismo è la cornice che fa da sfondo alla linea di condotta del governo cittadino, articolandosi in una guerra all'insicurezza di cui, gang e immigrati, rimangono i bersagli privilegiati. Del resto, qualcosa di diverso sarebbe obiettivamente impensabile. Mentre all'esterno il Governo precipita ogni giorno di più nella "guerra permanente" contro le popolazioni extraoccidentali.



la Repubblica - metropoli, 25 febbraio 2008

Un libro racconta il fenomeno dei Latin Kings


di Roberto Montoya

ROMA - Un libro che analizza il fenomeno complesso dei Latin Kings. Si chiama “Hermanitos”, (edito da Ombre Corte/culture euro 18.00 ) ed è un testo che cerca di mettere in luce, attraverso il lavoro di un equipe di giovani sociologi della facoltà di Scienze della Formazione di Genova, vita e politica della strada tra i giovani latinos in Italia.
"Lucha, Trabaja, y sea gente primero" sono le parole che qualche anno fa il cantante di Panama Ruben Blades cantava per sintetizzare la filosofia di un continente, uno stile di vita. Sono comuni anche ai Ñetas o Latin Kings. Gruppi di giovani latinos tra i 17 e 25 anni, figli della prima generazione di immigrati arrivati in Europa 30 anni fa che con le parole d’ordine "Lucha, Comparte e progressa", preoccupano da qualche tempo le istituzioni a Genova, Milano, Roma e Perugia. Il fenomeno attira l’attenzione di stampa, funzionari di polizia, magistrati.
Ma c'è di più. Questi giovani sulla scia del linguaggio universale che propone la loro musica, il reaggeton, diffondono e credono in valori come giustizia, fratellanza, pace e amicizia. Combattono il razzismo che essi stessi subiscono.
Il web diventa il luogo dove riscoprono e riaffermano le proprie origini latinoamericane. Sul messanger parlano dei loro problemi, senza sentirsi giudicati, si danno appuntamento per andare a ballare, si fanno tatuaggi, si fanno i pearcing e litigano come fanno tanti adolescenti italiani.
Negli Stati Uniti, in Spagna e Ecuador esistono associazioni di Latin Kings riconosciute dalle istituzioni. L'Italia dovrebbe seguire la stessa strada, anche se il percorso è lento.
L’idea di aprire un dialogo sulle dinamiche di aggregazione e di gruppo dei giovani latinoamericani in Italia è nato simbolicamente nel giugno 2006 a Genova con il convegno “Giovani, Migranti, Latinos”, un evento di riflessione dove si sono radunati numerosi esperti di gang latinoamericane, che hanno discusso del ruolo presente e futuro di queste organizzazioni.
L’ingresso nei gruppi rappresenta per molti ragazzi un occasione di riscatto rispetto alle esperienze della vita passata, attraverso l’adesioni e regole e codici. E’un vero e proprio rito di passaggio che fornisce al giovane la possibilità di avere una identità. Questi ragazzi vivono nel loro quotidiano difficoltà legate al ricongiungimento familiare, alle difficili condizioni di vita in Italia e alla crisi legata all’età adolescenziale.





Tutti i diritti riservati. Copyright © 2005 ombre corte edizioni
Via Alessandro Poerio, 9 - 37124 Verona - Tel. e Fax 045 8301735