Giulietta Stefani
Colonia per maschi
Italiani in Africa Orientale: una storia di genere
 
"Studi culturali" - 1, aprile 2009

Recensione
di Gaia Giuliani

Tra gli anni venti e quaranta, nello spazio definito dallo iato esistente tra immaginario coloniale fascista e vita reale degli italiani in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia, laddove più decise emersero le profonde contraddizioni esistenti tra progetto sociale nazionale da un lato e realtà storica concreta dall'altro, venne ad articolarsi una nuova idea di mascolinità e di bianchezza. Si trattò di un processo complicato che, pur prendendo vita da un progetto sociale ben preciso ed estremamente pervasivo, data la sua centralità in termini sia di ideologia sia di ingegneria sociale nazionale, dovette fare i conti continuamente con il vissuto quotidiano dei suoi protagonisti e con le proprie contraddizioni irrisolte. Proprio questo progetto, nel suo essere contemporaneamente posto in essere e disatteso, è al centro della ricostruzione storica di Giulietta Stefani, la quale ci offre, scavando nella vita, nei desideri e nelle fantasie degli italiani coloniali, uno sguardo che potremmo definire pornografico, ossia in grado di squarciare l'apparente compattezza della propaganda colonialista e di frugare - attraverso la letteratura coloniale così come le esperienze personali narrate nella corrispondenza dei soldati e dei volontari - alla ricerca dei sintomi e delle irrequietezze del nuovo maschio italiano.
Colonia per maschi è, in tal senso, un contributo fondamentale alla comprensione dell'identità maschile dell'Italia contemporanea, non solo per quanto riguarda la particolare accentuazione che il mito della virilità e della superiorità razziale fascista ne fornì, ma anche per le sue successive articolazioni. Il volume prende il via dal confronto tra il viceré Rodolfo Graziani e il duca d'Aosta, Amedeo di Savoia: Stefani ripercorre la loro avventura coloniale, indaga il significato associato alle loro figure e l'immaginario che attorno ad esse venne costruito. Graziani e il duca esemplificarono, infatti, le differenze esistenti tra le milizie fasciste, guidate dal primo, e l'esercito reale, comandato dal secondo, e in particolare quelle relative alla formazione ideologica dei primi - tipicamente di regime, sprezzante della compassione e del rispetto verso la popolazione civile, ed estremamente intrisa di maschilismo e razzismo - e i più antichi valori militari a cui l'esercito regolare si mostrava ancora devoto. L'obiettivo è quello di snodare il complesso intreccio culturale e ideologico che partorisce la figura contraddittoria - per quanto non di meno efficace nei termini dell'esercizio del potere maschile e bianco dell'occupante sul colonizzato - del nuovo maschio italiano. Stefani s'immerge poi nella narrativa colonialista del tempo, analizzando una serie di romanzi - dall'esempio più illustre, Ennio Flaiano autore di Tempo di uccidere (1947) a cui dedicherà l'ultima parte del libro, alla paccottiglia confezionata ad arte e imbevuta di richiami ai valori e ai truismi della propaganda coloniale fascista, alle opere censurate, infine, perché troppo indulgenti nel raccontare l'infatuazione degli italiani per il continente (il loro "mal d'Africa"). L'obiettivo è quello di cogliere l'immagine del continente colonizzato che esse ricompongono, rispondendo anche a sollecitazioni internazionali, soprattutto da parte della letteratura inglese, e trasformando l'Africa nel "luogo di un ritorno alla natura, alla ricerca delle origini e degli istinti primordiali, una sorta di via regia verso la ripresa di quella virilità" che era stata oltraggiata e svilita dall'intellettualismo liberale e dal modernismo culturale e sociale d'inizio secolo. Ma Stefani vuole gettar luce anche su un altro aspetto cruciale della vicenda coloniale italiana: lo stordimento - e la palpabile delusione - che derivò agli italiani coloniali dal contatto con il deserto abissino, con l'asprezza di quei territori e con la sensazione di essere stati abbandonati a se stessi laddove non vi erano i legami familiari a recare conforto e lo Stato fascista sembrava latitare. Leggendo tra le righe di questa socialità costretta, concentrata ma rarefatta, Stefani disarticola l'atteggiamento razzista e sessista degli italiani - che, con rare eccezioni, velate peraltro di un altrettanto spiccato razzismo paternalista, si manifestavano quotidianamente - contro la popolazione locale: razzismo e sessismo, elementi sistemici dell'ideologia fascista che avevano però una lunga storia, traspaiono dalle lettere così come dai romanzi e dalle memorie di chi fu soldato o commerciante, camionista o mercante nelle colonie del Ventennio. Le forme che essi assunsero, fisiche o simboliche che fossero, spaziano dalle offese più sottili a quelle più rozze ed orgogliose: nel loro vasto panorama, esse esistettero sia prima sia dopo il varo delle leggi razziali del 1936, 1937 e 1938, e furono accompagnate, nei casi più estremi ma non per questo isolati, da stupri, eccidi di massa e dall'utilizzo indiscriminato di gas mortali - come Angelo del Boca ci ha raccontato. Ma se il razzismo coloniale, pilastro dell'orgoglio italiano di nazione e razza, trovava una larga diffusione nelle colonie, ad esso faceva da contrappunto un altro razzismo, molto meno glorioso, e osteggiato dall'ideologia di unità razziale e nazionale rafforzata dal fascismo. Stefani punta l'attenzione in questo caso sul razzismo "degli italiani contro gli italiani" che innervava il disprezzo anti-meridionale o localista e che faceva emergere in modo inequivocabile la frattura "interna alla bianchezza italica" e l'incompiutezza del progetto di un'unica grande "stirpe" qual era quello presente nella mente dei teorici fascisti, fossero essi spiritualisti o genetisti.
In tal senso le contraddizioni interne al progetto del nuovo maschio italiano sembrano emergere anche e soprattutto nel suo luogo d'elezione, nella sua fucina e palestra: proprio nelle colonie, infatti, sia il progetto di ri/costruzione dell'unità razziale - sia quello di ri/costruzione dell'identità maschile che la accompagna in modo strutturale - si adoperano contro se stessi. L'ambiguità giuridica e culturale nel considerare le relazioni miste - come simbolo della penetrazione e del possesso dell'Africa, descritta come femmina nera dall'estrema sensualità, indomabile e al contempo alla ricerca del domatore bianco, e, successivamente, come pericolo per la purezza della stirpe - e i meticci che ne risultavano - considerati orgogliosamente come l'effetto tangibile della civilizzazione e dello sbiancamento della popolazione colonizzata, o, al contrario, come simbolo dell'avvenuta degenerazione - rivela il conflitto tra (molteplici) teorie e prassi, laddove le pratiche sessuali ed affettive individuali riarticolavano concezioni e relazioni di potere. In tal senso, la messa al bando del "madamato" e delle relazioni miste rivela come il fenomeno sia stato a un certo punto considerato "pericoloso", sicuramente per la sua capacità di svelare l'artificiosità e la debolezza intrinseca dell'idea di unità razziale. Persino la mascolinità si frantumava laddove, come ci spiega Stefani, l'aspirazione a un recupero della virilità bianca si traduceva, in modo nient'affatto marginale, in quella "degenerazione" (omosocialità, omoerotismo, omosessualità soprattutto mista) che lo stesso Mussolini tentò di frenare in vari modi, tra cui l'invio di prostitute italiane, o più generalmente bianche, nelle colonie.



Liberazione - 29.05.2007 Quel maschio fascista in cerca d'identità nelle colonie

Negli studi storici sul colonialismo la prospettiva di genere ha faticato ad entrare nel nostro paese al contrario di quanto è accaduto nell'ambiente anglofono. Rompe l'anomalia un saggio di Giulietta Stefani sugli italiani in Africa orientale

di Giulia Barrera

Considerando quanto le idee di subordinazione delle donne siano state strumentali alla costruzione delle barriere razziali in colonia e dunque, in definitiva, alla costruzione dell'edificio coloniale ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare che gli studi storici sul colonialismo assumessero precocemente il genere come categoria di analisi. Questo è avvenuto in ambito anglofono, ma non negli studi sul colonialismo italiano.
A parte qualche pionieristico saggio negli anni Ottanta, occorre attendere la fine degli anni Novanta perché l'analisi di genere cominci ad affermarsi negli studi coloniali italiani, in buona parte grazie a ricercatori - italiani e non - formatisi presso università anglosassoni. Le monografie in materia rimangono però una rarità (merita in particolare di essere ricordata B. Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941) , Napoli, Liguori, 1998).
E' quindi particolarmente benvenuta la pubblicazione di due libri sul colonialismo italiano nel Corno d'Africa che assumono in pieno un'ottica di genere, quali i lavori di Gianni Dore, Scritture di colonia. Lettere di Pia Maria Pezzoli dall'Africa Orientale a Bologna (1936-1943 ), (Bologna, Pàtron, 2004) e di Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere , (prefazione di Luisa Passerini, Verona, Ombre corte, 2007).
Il lavoro di Dore costituisce la prima pubblicazione di un epistolario femminile coloniale italiano: sessanta lettere (su di un totale di 146 conservate alla Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna) scritte dall'Eritrea e dall'Etiopia da Pia Maria Pezzoli, la moglie di un giovane e brillante funzionario coloniale, Giovanni Ellero (1910-1942). Nata nel 1905, la bolognese P.M. Pezzoli si era laureata in giurisprudenza ed era poi divenuta procuratrice legale; nel maggio 1936, appena sposatasi, aveva lasciato la professione per seguire il marito in colonia. Donna colta (nelle lettere alla madre discute spesso di letteratura e una delle sue costanti richieste ai parenti è l'invio di libri) e poco convenzionale (aveva scalato il Monte Bianco e il Cervino), in colonia assunse però pienamente il ruolo di moglie. Ruolo che - come acutamente mostra Dore, nella sua densa e corposa introduzione - giocava una parte di rilievo nelle strategie di potere coloniali e non solo perché la presenza della moglie metteva il funzionario al riparo dalla tentazione di convivere con donne indigene.
La moglie del residente di governo (le Residenze erano circoscrizioni amministrative), ad esempio, era parte importante nelle cerimonie pubbliche. Per cercare di legittimarsi, il potere coloniale fece largo uso di ritualità pubblica, in parte assorbendo e trasformando a proprio uso tradizioni locali, in parte inventandone di nuove (ne ha parlato diffusamente lo storico africanista Terence Ranger nel celeberrimo L'invenzione della tradizione, da lui curato assieme a E. J. Hobsbawm). Pia e il marito andavano a inaugurazioni di monumenti ed edifici pubblici, partecipavano a cerimonie religiose e a matrimoni dei maggiorenti locali e visitavano il territorio, sempre adeguatamente scortati da una pattuglia di ascari («il prestigio dei funzionari infatti non permette che si esca da soli», spiega Pia). Già solo il loro mostrarsi al pubblico era segno di presa di possesso del territorio (la presenza della moglie, in questo contesto, segnalava in Etiopia la fine della guerra e la piena affermazione del governo civile). «I capi e i notabili baciano la terra al nostro passaggio». Il messaggio dei rituali era chiaro. La casa di un residente di governo era poi luogo dal forte valore simbolico, modello ed emblema della nuova civiltà dei colonizzatori. Nella casa si sperimentava uno dei rapporti più stretti fra colonizzati e colonizzatori che si potevano avere in colonia: il rapporto servo/padrone. La moglie e padrona di casa gestiva la servitù, costruendone nella quotidianità la subordinazione non solo di classe ma anche razziale. Le mura domestiche, osserva poi Dore, costituivano uno degli ambiti in cui si affermava il disciplinamento dei corpi indigeni: si introducevano nuovi standard igienici, nuovi modi di vestire, nuovi modelli di commensalità e di cura della casa e del corpo (fuori dalle mura di casa, si pensi invece alle «pratiche militari e alla creazione di spazi segregati per la punizione»): «tutti modi per plasmare socialmente non solo i pensieri ma finanche le funzioni biologiche dei corpi indigeni. Su tutto ciò bisogna misurare il lascito profondo e forse più duraturo del sistema coloniale».
Il contributo forse maggiore del libro di Dore - fra i tanti che offre - è dato dal fatto che, tramite la lettura delle lettere di Pia Pezzoli, permette di esplorare nell'intimo la logica del paternalismo coloniale. Si tratta di un contributo importante, perché proprio gli atteggiamenti paternalisti da parte dei coloni si sono spesso prestati ad equivoci interpretativi (si ha difficoltà, ad esempio, a riconoscere come paternalismo e pregiudizio razziale potessero convivere). Di fronte a colonizzatori quali i coniugi Ellero, che alla "missione colonizzatrice" credevano sinceramente (dalle lettere di Pia emerge costantemente un intento pedagogico nei confronti degli africani), molte volte non si è compreso che anche atteggiamenti benevoli nei confronti dei colonizzati di norma convivevano con rapporti gerarchici. Lo mette bene in evidenza Dore, parlando dell'affetto che si poteva sviluppare tra servi e padroni: affetto reale nel caso di Pia, prova ne sia che un suo servo continuò a tenersi in contatto con lei per decenni dopo la fine del colonialismo, ma non di meno sviluppatosi in un quadro solidamente gerarchico. Se dietro la benevolenza e gli affetti non si vede la gerarchia, vuol dire che non si comprende il nocciolo della situazione coloniale. Ma se dietro alle gerarchie non si sanno riconoscere affetti o sincere intenzioni (sincere, pur se fondate su presupposti errati), si finisce per fare una caricatura dei colonizzatori; se li disumanizziamo, ci neghiamo la possibilità di comprendere la logica che li animava.
Mentre il libro di Dore aiuta a comprendere il mondo e gli orizzonti mentali delle donne italiane in colonia, il libro di Stefani guida alla comprensione del mondo degli uomini: uomini che giustamente Stefani considera non come l'universale umano ma come esseri sessuati (maschi in colonia, appunto). La domanda attorno a cui ruota il libro è «se e in che modo il colonialismo italiano, in particolare nell'Etiopia fascista, fosse stato funzionale a rispondere a precise istanze di ridefinizione dell'identità maschile nazionale». Gli studi sulla storia della mascolinità - sviluppatisi soprattutto in ambito anglofono e che solo di recente hanno cominciato a diffondersi in Italia - hanno dimostrato come negli anni compresi fra il 1870 e la Grande guerra sia maturata in Occidente una crescente incertezza identitaria maschile, legata ai processi di modernizzazione. «Si diffuse infatti il timore che la vita comoda, sedentaria e ripetitiva delle élite borghesi nelle città industriali trasformasse il maschio in "un uomo senza nerbo, pavido, malaticcio", in un processo di degenerazione che avrebbe causato alterazioni nervose, isteria, effeminatezza e, nella peggiore delle ipotesi, omosessualità» scrive Stefani (citando Sandro Bellassai, storico della mascolinità in Italia). «Nacque quindi - prosegue Stefani - l'idea della necessità di una rigenerazione maschile» e prese corpo «una pedagogia maschile di tipo patriottico militarista» che vide nella guerra un'occasione di recupero di identità maschile. Il fascismo, ha osservato Bellassai, fu a suo modo una risposta a queste «incertezze identitarie maschili». «E' in questo contesto che dobbiamo collocare il tentativo fascista di proiettare sul mito africano le aspirazioni di rigenerazione e di realizzazione maschile degli italiani, attribuendo all'Africa coloniale il ruolo di valvola di sfogo delle ansie e delle frustrazioni».
L'approccio scelto da Stefani per esplorare questi nodi tematici è quello degli studi culturali, come caratteristico dei così detti post-colonial studies, al cui ambito metodologico Stefani si rifà. Il libro contiene alcune incursioni nella storia sociale, ma si tratta delle sue pagine meno convincenti. Il punto, comunque, è che sapendo far dialogare gli studi sulla storia della mascolinità con quelli sul colonialismo italiano (e sapendolo fare, vale la pena sottolinearlo, con una prosa stringata e di esemplare chiarezza, virtù non comuni), il libro di Stefani ha introdotto in questi ultimi una categoria di analisi di cui non si potrà non tener conto nei futuri studi.



Il manifesto, 23 giugno 2007

La conquista coloniale dalla parte del secondo sesso

"Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere", un libro di Giulietta Stefani per Ombre corte. Un saggio ben scritto, ma con imprecisioni e un uso spregiudicato della memorialistica, dell'antropologia e della sociologia che rischia di ridurre il colonialismo a metafora
di Giampaolo Calchi Novati

È sicuramente un fatto di cui compiacersi il crescente interesse di quella che intanto, per comodità, si può chiamare "nuova storiografia" per il colonialismo e in particolare, da noi, per il colonialismo italiano. Benvenute nuove fonti e idee nuove. Una corrente di ricerca che prende sempre più piede, fino a soverchiare i temi forti della "vecchia storiografia", privilegia gli aspetti di interazione e ibridazione fra colonizzatori e colonizzati che rimandano al post-colonialismo e ai campi d'indagine degli studi culturali.
Il genere ha in questo ambito una parte rilevante e spesso predominante. La prima domanda che viene in mente leggendo l'opera recente di Giulietta Stefani dal titolo esplicito di Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere (Ombre corte, pp. 202, con prefazione di Luisa Passerini) è se una simile predilezione per la dimensione immateriale, psicologica del colonialismo non corra il rischio di obliare o obliterare l'impatto che la dominazione occidentale ha avuto sulle istituzioni e l'apparato produttivo dei territori oltremare, in Africa e altrove. Per il momento, il terreno privilegiato del post-colonialismo, come si sa, è l'India. Un filone promettente, e già fecondo di risultati che fanno tendenza, è sempre sul punto di trasformare il colonialismo in una metafora rivalutando surrettiziamente un approccio eurocentrico che tutti davano ampiamente per obsoleto.
Sorprende che il dubbio non sfiori nemmeno l'autorevole prefatrice, che si dice in perfetta sintonia con questa risorsa: un bel salto per una storica che si distingue sì per gli studi sulla subalternità ma che a suo tempo avviò per prima in Italia studi sul colonialismo e la decolonizzazione che spostavano il fulcro dalla "nazione" alla "classe". L'assunto principale della ricerca di Giulietta Stefani è il sottofondo sessista della propaganda e dell'atto coloniale. L'uomo si riscatta dalla mediocrità o dalla crisi con la guerra per le colonie. La bella morte e insieme la bella vita. La posta della conquista è costituita dall'Africa, ma anche dalla terra vuota e soprattutto dalla donna "indigena", l'una e l'altra in attesa di un "padrone".
L'esotismo, l'avventura personale, diventa un tutt'uno con la volontà del blocco al potere di espandere un'economia e una politica. Il fascismo ebbe successo - la guerra d'Etiopia come apogeo di legittimazione e consenso per Mussolini - perché seppe convogliare verso l'Africa le ansie e le aspirazioni di una generazione di uomini più o meno giovani invitandoli a proiettarsi in un mondo che li rinvigoriva e gratificava con immagini traducibili in termini o stilemi sessuali.
Nessuno ha il diritto di stabilire una volta per tutte le frontiere della storia. È sempre valida del resto la sovrapposizione fra storia come narrazione e interpretazione dell'avvenuto e storia come insieme delle dinamiche che sono l'oggetto di quella stessa disciplina. I fatti hanno peraltro una loro forza intrinseca. Sotto un certo limite, un'analisi che li ignori, li manipoli o li svuoti della polpa è ancora storia? Per questo all'inizio si è introdotta l'espressione "nuova storiografia" con una riserva che sottintendeva un punto interrogativo. Fare il professorino è antipatico, ma alla terza o quarta volta che Graziani viene chiamato il primo viceré d'Etiopia è inevitabile chiedersi che fine abbia fatto Badoglio nel libro della Stefani.
Il colonialismo è per definizione alienazione, e i sudditi dei possedimenti italiani sono passati attraverso molte peripezie giuridiche e di status, ma l'uso che si fa nel libro di qualifiche come eritrei, abissini e etiopici (quasi sempre nella fastidiosa variante di "etiopi", che evoca più l'Aida di Verdi che l'Etiopia di Haile Selassie) è intercambiabile e non di rado decontestualizzato. Può essere problematico stabilire il giorno, il mese e l'anno dell'acquisizione di una colonia, ma con la datazione riportata alla pagina 31 del libro nessuno studente all'università supererebbe un esame di storia dell'Africa. A proposito di date, anche se il libro è concentrato sostanzialmente sui cinque-sei anni dell'Africa orientale italiana (Aoi), le ipotesi o le tesi che sostiene sono dilatate in modo da coprire tutto l'arco temporale e spaziale del colonialismo italiano. Fra le fonti utilizzate spiccano gli inediti raccolti nel benemerito archivio di Pieve Santo Stefano voluto da Saverio Tutino (una memorialistica certamente interessante, in parte già esplorata anche su temi coloniali) e alcuni testi letterari sull'esperienza coloniale italiana molto visitati (come il romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, che alla fine diventa una specie di icona per l'intera ricerca).
Il diario di qualcuno che, colono o soldato, è stato in Africa, e la rappresentazione dell'Africa in opere dove prevale l'invenzione, sono ovviamente documenti preziosi per riconoscere le motivazioni dei singoli ("in casa si stava male, così decisi di andare in Africa"), purché non si pretenda di arrivare a conclusioni generali d'ordine storico o storiografico. Al di là di questi e altri rilievi, non tutti di dettaglio, è l'impalcatura complessiva di Colonia per maschi a dare l'impressione che non sia questa la strada definitiva per innovare nella storia del colonialismo italiano.
Non tanto per il valore specifico delle informazioni e rielaborazioni contenute in questo libro - di bella scrittura e ricco di intuizioni e suggestioni acute e stimolanti sulla scuola, gli alti e bassi della legislazione per regolare i rapporti con gli indigeni fino al razzismo, le unioni miste, gli ascari, e via dicendo - ma per le inadeguatezze della metodologia generale in cui esso si iscrive, che è imparentata a vario titolo piuttosto con l'antropologia, la sociologia e persino la letteratura. Anche Luisa Passerini, presentando il libro, parla di nuova storiografia. Resta aperto il quesito se è una storia che riguarda l'Europa (e quindi l'Italia) o l'Africa.



Il manifesto, 28 giugno 2007

La dimensione postcoloniale della soggettività

di Luisa Passerini

Da tempo la storia culturale e gli studi postcoloniali hanno esteso e complicato il concetto di soggettività, come mostra brillantemente Stuart Hall nei due volumi di saggi da poco pubblicati in italiano. In particolare è significativo per l'aspetto della soggettività coloniale e postcoloniale un libro recente di Leela Gandhi, Affective Communities. Anticolonial Thought, Fin-de-siècle Radicalism, and the Politics of Friendship (2006), in cui si analizza la storia dei legami affettivi instaurati da individui e gruppi che nel periodo tra il 1878 e il 1914 rinunciarono ai privilegi dell'imperialismo britannico - nel contesto del quale vivevano - e elessero delle affinità con le vittime delle loro culture espansionistiche. Il testo ci racconta l'amicizia tra Edward Carpenter, riformatore omosessuale e socialista inglese, e il giovane avvocato vegetariano Mohandas Gandhi; o tra la mistica francese e ebrea Mirra Alfassa e lo yogi indiano Sri Aurobindo. Così facendo Leela Gandhi mette in discussione la struttura binaria della soggettività imperialistica e il suo aggressivo manicheismo, ma contemporaneamente anche le immagini omogenee dell'"occidente" e il loro ruolo in rapporto con le lotte anticoloniali, sulla base di forme nascoste di anti-imperialismo e di possibilità affettive. La sua analisi rigorosa, che comprende aspetti teorici e pratici, innova gli studi postcoloniali ed è un esempio per la storiografia di ogni ambito.
Mi offre lo spunto per fare queste considerazioni, e le altre che seguiranno, una recensione di Giampaolo Calchi Novati al libro di Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, di cui ho scritto la prefazione (recensione pubblicata sul manifesto di sabato scorso). Sia ben chiaro che non intendo rispondere alle critiche rivolte al libro, alle quali replicherà - se lo ritiene importante - l'autrice stessa, ma soltanto alle inesattezze che mi riguardano e alle confusioni sul tema del postcolonialismo (noto che Calchi Novati usa il termine con il trattino, il che implica nell'uso corrente un'accezione del fenomeno come processo storico, senza prendere in considerazione i suoi assunti teorici). Secondo il recensore, sarei una studiosa che "si distingue sì per gli studi sulla subalternità, ma che a suo tempo avviò per prima in Italia studi sul colonialismo e la decolonizzazione che spostavano il fulcro dalla 'nazione' alla 'classe'".
Ora, se mi si permettono precisazioni autobiografiche, tali studi risalgono rispettivamente al 1984 e al 1970. I miei scritti successivi riguardano tra l'altro la storia della soggettività dei movimenti degli studenti e delle donne, e l'analisi della soggettività eurocentrica nel campo delle emozioni. Mi è parso importante - negli anni dal 1985 a oggi - contribuire alla decostruzione del retaggio post-coloniale dall'interno del retaggio stesso. Le reazioni a tali lavori da parte di studiosi non europei hanno confermato l'interesse di questo orientamento anche per chi non è europeo di nascita. Faccio queste considerazioni perché sono funzionali al discorso sulla dimensione postcoloniale della soggettività. Secondo Calchi Novati invece, un approccio che prediliga quello che definisce "la dimensione immateriale, psicologica del colonialismo" non riguarda l'Africa, ma soltanto l'Europa e si merita il titolo di eurocentrico. Sotto questa strana convinzione (che a mio parere fa un affronto all'Africa e agli africani) si nasconde in realtà una vecchia polemica, propria - come i riferimenti alla mia produzione storiografica - degli anni 1970 e primi anni 1980.
Ricordo che in quel periodo la corporazione degli storici contemporaneisti non considerava la storia orale storia in senso proprio, ma piuttosto qualcosa che aveva a che fare con "l'antropologia, la sociologia e persino la letteratura": cito dall'articolo di Calchi Novati i termini con cui si riferisce al libro recensito per dire che non è vera storiografia, ma sono gli stessi toni che usavano in passato gli storici "veri e propri" verso chi usava le fonti soggettive. E così riecheggia anche l'affermazione che tutto ciò va benissimo, "purché non si pretenda di arrivare a conclusioni generali d'ordine storico o storiografico". Resta insomma la scelta di privilegiare i "fatti" contro i processi culturali e la scala "generale" rispetto a quella della microstoria. E resta anche ignorata la specificità della dimensione di genere su questo terreno, mentre non solo la storia di genere, ma anche i movimenti femministi hanno insistito sul carattere cruciale degli aspetti simbolici nell'oppressione di genere. Infine, l'appunto polemico del recensore secondo cui si corre il rischio, affrontando la dimensione della soggettività maschile e del genere, di trasformare il colonialismo in metafora, sbaglia obiettivo. Il problema è semmai quello di articolare le metafore legate al colonialismo a seconda dei diversi campi del dominio, come stanno facendo studiose e studiosi appartenenti alle generazioni successive rispetto a quella mia e del recensore.



Le Monde diplomatique - luglio 2007

di Igiaba Scego

Con questo Colonia perMaschi-già rcensito da Calchi Novati sul rnanifesto - Giulietta Stefani dà un contributo originale a un vuoto di narrazione che solo da poco (grazie a persone come Del Boca, Triuizi, Labanca, Ben-Ghiat) ha commciato ad essere riempito. L'interesse in Italia verso questi temi è cresciuto molto in questi anm, si è parlato soprattutto dei climmi di guerra compiuti dai fascisti neHe tNre colon~te, ma per il resto poco altro. Chi si avvicina alla storia del colonialismo rnade in ltaly sa che dovrà fare un enorme sforzo di creatività sia nell'uso delle fonti sia nel decifrare l'esiguo (anche se di peso) corpus di opere già scritte. Stefani dà un taglio di genere alla sua rioerca. Ed è questa la novità rispetto agli studi del passato. Parla di genere, di maschi, di mascolinità. Di quei tanti italiani chc combatterono e lavorarono nell'Africa fascista. Di quei tanti italiani che depredarono e umiliarono terre e genti. Storia poco e mal conosciuta quella dei maschi in colonia. Spesso traspare solo la veste ufficiale, il ruolo sociale. Niente - almeno in maniera così capillare - era stato scritto sui sentimenti e sui comportamenti di questi uomini. La Stefani ha analizzato diari inediti, ma anche molta letteratura coeva. La studiosa parte dall'ipotesi che la conquista di nuove terre era nata anche come esigenza terapeutica per arginare quella che il fascismo definiva "degenerazione" del maschio italiano. La colonia quindi non serviva solo a dare prestigio intemazionale al regime, ma anche a ridefinire il canone maschiIe dominante. Il maschio quindi secondo canone doveva essere estremamente virile, estremamente nobile, superiore, forte, elegante, conscio della forza dei suoi organi genitali. L'Atrica di conseguenza era vista come passiva, vergine, da penetrare, da stuprare, era quello che serviva (in questo modo la vendeva la propaganda fascista) al rnaschio italiano per raggiungere quell'ideale di efficienza che il regime ricbiedeva. Agghiacciante l'analisi delle relazioni con le popolazioni autoctone. Un misto di paternalismo, sfruttamento sessuale, disprezzo. Donne descritte come oggetti senza anirna, come corpi vuoti. Ma scopriamo che la vogliacarnale del maschio bianco italiano era appagata anche da giovani ascari o da bambini. Relazioni tra soli maschi che nessuno aveva mdagato. La visione ufficiale, il modello dominante dell'uomo nuovo fascista (incamato sia dal rozzo Rodolfo Graziani sia dall'elegante Amdeo di Savoia) si mtreccia nel testo alla realtà del quotidiano coloniale. Ne emerge una figura maschile variegata, convinta di essere "civile" e superiore. Un maschio che da lì a poco avrà il brusco risveglio della Seconda guerra mondiale.



Corriere della sera - 18 luglio 2007

Esotica quanto erotica, L'Abissinia degli italiani Il fascino delle indigene era più forte dello spirito imperiale


Di Giovanni Belardelli

Che nel 1935-36 la guerra di Etiopia rappresentasse il momento di massimo consenso degli italiani al regime fascista, quello nel quale la retorica mussoliniana seppe anche intercettare sentimenti profondi della popolazione, è un fatto da tempo riconosciuto. Ma il libro di una giovane studiosa, Giulietta Stefani (Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere), esamina ora la questione da un altro punto di vista: studia cioè, soprattutto attraverso i diari e le memorie conservati nell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, l'insieme di sogni, paure, aspirazioni e delusioni che furono proprie degli italiani che allora si recarono in Africa, come civili o come militari. Quell'impresa coloniale, secondo il Duce, rappresentava una prova per collaudare "la virilità del popolo italiano": coinvolgendo quasi 500 mila giovani (un quinto di quanti allora avevano dai 20 ai 25 anni), doveva contribuire appunto a forgiare l'"uomo nuovo" fascista, impegnato nella conquista militare, ma anche nella colonizzazione dell'Etiopia. In realtà, a giudicare dalle testimonianze utilizzate nel libro, le cose andarono in modo diverso. Almeno nel caso dei civili, di quanti cioè si esrano recati nella nuova colonia per lavoro, si treattò di un soggiorno pieno di disagi, durante il quale le speranze di ricchezza che avevano indotto alla partenza furono presto sostituite dalla disillusione. " A volte c'erano vermi nella minestra", scrive un ex operaio che aveva lavorato alla costruzione della strada tra l'Asmara e Addis Abeba, per giunta faticando non poco a farsi pagare dalla ditta presso cui era impiegato. E un altro ricorda di aver dovuto dormire in "brabnde di ferro senza un pagliericcio e senza niente". Alcune testimonienze menzionano il sollievo di incontrare a volte dei "compaesani", registrando invece il disagio di fronte a italiani di altre regioni, la "Babele" di dialetti che poteva far sentire ancora più sperduti. Fino alla comparsa di un pregiudizio antimeridionale dai toni quasi razzisti. "E' doloroso dirlo - si legge in un diario - mas in Etiopia abbiamo mandato troppi meridionali. Sono troppo arretrati per avere autorità, per imporre quella che si chiama civiltà europea. Taluni di essi si trovano perfettamente a loro agio nella sporcizia dei tucul, perché nel loro paese pugliese o calabrese non ebbero mai nulla di meglio".
L'impressione generale che si ricava da diari e testimonianze di civili, osserva la Stefani, è che "l'esperienza in Etiopia abbia smorzato, se mai c'era stata in questi individui, l'adesione al modello coloniale fascista". Ed è una osservazione che riguarda gli stessi militari: un ufficiale, riflettendo che in Africa sembrava non attecchire l'uso del "voi" imposto dal regime nel 1938 al posto del "lei", concludeva con l'impresione che lì, per la stessa lontanaza dall'Italia, che l'ideologia fascista fosse stata colocata "come in soffitta". Le testimonianze italiane in Etiopia, coeve o posteriori, sembrano riproporre un immaginario coloniale largamente antecedente il fascismo, quell'insieme di sogni e fantasie esotiche (ed erotiche) sull'Africa che aveva caratterizzato già da fine Ottocento la popolazione maschile di vari stati europei.
Così, nelle descrizioni dovuta alla penna di ufficiali o civili, ritorna il topos - diffuso attraverso tanti racconti di viaggio e romanzi coloniali - dell'Africa come terra del mistero e dell'avventura, grande spazio popolato da animali selvaggi e per il resto vuoto o quasi di esseri umani (che la presenza degli indigeni fosse un dato del tutto marginale era stato appunto un elemnto essenziale della rappresentazione europea del continente africano e una delle principali giustificazioni della sua conquista). Ritorna la contrapposizione tra la vita della madrepatria e quella "tonificante" ed "eccitante" della colonia. Ritorna la rappresentazione dell'Africa cime paradiso dei sensi, quell'insieme di luoghi comuni sulla sfrenata e disinibita sessualità delle africane che aveva nutrito, dall'inizio del colonialismo, l'immaginazione di tanti europei. Si trattava di una rappresentazione in cui l'attenzione e la repulsione si mescolavano, a giudicare dalla felicità con cui la descrizione del fascino delle donne indigene poteva lasciare il posto alla caratterizzazione quasi animalesca delle africane. Ed era, questa, una oscillazione che spesso corrispondeva al modo in cui la cultura dell'epoca contrapponeva il talento seduttivo delle donne arabe all'aspetto selvaggio delle "negre".
I riferimenti alle indigene rappresentano un argomento molto frequentato nelle memorie di chi si era recato in Etiopia; ma nella realtà gli effettivi contatti erano stati sporadici, al cosiddetto "madamato", un rapporto temporaneo di indole coniugale destinato a terminare con il ritorno in patria. Una pratica, quest'ultima, che era da tempo giustificata con l'argomento che le stesse regole indigene la consentivano, e che spesso coinvolgeva donne giovanissime, quasi delle bambine. A partire dal 1937 il regime vietò ogni relazioe di tipo coniugale fra italiani e indigene, che divenne punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Ma è probabile, ossrva Giulietta Stefani, che la pratica rimanesse diffusa, benché in forma sommersa. Si tratterebbe di un ulteriore motivo, dunque, per ritenere che l'esperienza "africana" di tanti italiani venisse toccata solo in parte dalle direttive del regime e dai suoi prigetti di costruzione dell'"uomo nuovo" fascista.



il manifesto

Una replica a Calchi Novati


Sebbene in ritardo, per impegni e motivi personali, vorrei intervenire sulla recensione al mio libro «Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere» (Ed. Ombre corte), apparsa sul manifesto il 23 giugno a firma di Giampaolo Calchi Novati. Sulle perplessità espresse dal recensore sugli orientamenti della «nuova storiografia» postcoloniale e quindi, indirettamente, sulla metodologia del mio lavoro, ha già detto, più autorevolmente di me, Luisa Passerini su queste stesse pagine il 28 giugno. Ben venga discutere, e non condividere, approcci e contenuti di un volume, altra cosa è sostenere che «ignori», «manipoli» o «svuoti della polpa» i «fatti» della storia, come scrive Calchi Novati parlando del mio studio. Calchi Novati mi attribuisce alcune imprecisioni, sostenendo per esempio che «con la datazione riportata a p. 31 (del mio libro) nessuno studente all'università supererebbe un esame di storia dell'Africa»: peccato che «Colonia per maschi» sia, deliberatamente, una monografia e non un manuale di storia, e tanto meno di storia dell'Africa, per cui la cronologia delle fasi del colonialismo italiano da me indicata è volutamente sintetica (ma corretta). Analogamente potrei rispondere alla domanda di Calchi Novati su «che fine abbia fatto Badoglio» nel mio libro: primo vicerè d'Etiopia, è vero, ma per neppure due settimane e quasi suo malgrado, visto che appena assunti i poteri chiese a Mussolini di rientrare in Italia e venne subito sostituito da Graziani. Per questo motivo ho deciso di escludere Badoglio dalla mia analisi dei leader coloniali come modelli maschili. Calchi Novati definisce poi intercambiabile e decontestualizzato «l'uso che si fa nel libro di qualifiche come eritrei, abissini e etiopici (quasi sempre nella fastidiosa variante di «etiopi», che evoca più l'Aida di Verdi che l'Etiopia di Haile Selassie)». Comprendo e condivido l'attenzione del recensore all'aspetto terminologico, e infatti a p. 117 del volume sottolineo io stessa «la genericità e la confusione» dei termini, non mia però, bensì delle fonti da me interpellate, e in particolare delle memorie degli italiani, nel riferirsi agli indigeni. È questo un aspetto indubbiamente problematico, la cui risoluzione però esulava dagli intenti principali del mio lavoro, fra cui quello di riportare fedelmente, inesattezze comprese, il punto di vista dei colonizzatori sui colonizzati. Del resto da tutta la recensione di Calchi Novati traspare il suo disappunto per aver letto un libro che non corrisponde ai suoi desiderata, prima di tutto perché non si occupa di Africa ma di Europa (e per questo lo accusa di eurocentrismo!), e poi perché utilizza una metodologia che definisce «imparentata a vario titolo con l'antropologia, la sociologia e persino la letteratura», ovvero, direi io, tesa all'interdisciplinarietà. Vorrei sottolineare che sono scelte pienamente consapevoli dell'autrice, che hanno imposto, come in ogni monografia, di approfondire alcuni aspetti dell'oggetto di studio piuttosto che altri, senza, per questo, ignorarli.

Giulietta Stefani




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