Scritture minori

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Vincenzo Binetti

pp. 158
Anno 2021 (settembre)
ISBN 9788869481994

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Descrizione

Vincenzo Binetti
Scritture minori
Letteratura, linguaggio politico e pratiche di resistenza
Prefazione di Enrico Palandri

L’intento di questo lavoro è indagare e problematizzare tensioni conflittuali e produttive tra lingua letteraria, linguaggio politico e pratiche di resistenza: un tentativo, in altre parole, di immaginare in qualche modo la produzione intellettuale e culturale come strumento politico potenzialmente capace di destabilizzare narrazioni egemoniche e normative, e produrre così nuove forme e pratiche rivoluzionarie che aspirino a considerare il linguaggio come parte integrante di un continuo processo di trasformazione della società in cui viviamo. Il ruolo dell’intellettuale, il rapporto tra letteratura e politica, tra rivoluzione e linguaggio sono questioni complesse che chiaramente sollevano fondamentali e ormai annose domande: come può la letteratura farsi espressione di forme di antagonismo e di pratiche sovversive? Come creare momenti comunitari di lotta? Come mettere le parole in azione così che esse possano eventualmente diventare elementi di destabilizzazione politico-culturale? Il problema non consiste, però, nell’individuare l’intenzionalità ideologico-politica autoriale, nello stabilire eventualmente categorie di giudizio in base alla collocazione di parte del testo e di chi scrive, ma di esplorare invece gli elementi impliciti nel discorso letterario in quanto esso stesso potenzialità politica.

“Resistere, restituire al corpo la sua disobbedienza, ciò che non si piega e non si lascia tradurre nel capitalismo, capire che la letteratura e l’arte in generale o è questo reale che resiste ed esiste, o non è nulla, è capire cosa lega Cesare Pavese e Carlo Levi (ma anche Primo Levi o Elsa Morante, Romano Bilenchi e Italo Calvino, Gianni Celati e tanti altri) alla mia generazione” (Enrico Palandri).

Vincenzo Binetti insegna Italian Studies presso il dipartimento di Romance Languages and Literatures della University of Michigan, Ann Arbor. È autore, tra l’altro, di Città nomadi. Esodo e autonomia nella metropoli contemporanea (ombre corte, 2008) e di Cesare Pavese. Una vita imperfetta. La crisi dell’intellettuale nell’Italia del dopoguerra (Longo editore, 1998). I suoi interessi di ricerca riguardano anche la letteratura della migrazione, i movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta e il rapporto tra filosofia politica e letteratura.

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione
di Enrico Palandri

11 Capitolo primo. Fuga, spaesamanto e invisibilità

Raccontare la Storia: ricostruzione memoriale e testimonianza storica ne L’editore di Nanni Balestrini; Le vie del (non) ritorno: lo spatrio come displacement identitario nella scrittura di Enrico Palandri; Otium, precarietà e spaesamento conoscitivo nella scrittura di Giorgio Vasta.

42 Capitolo secondo. Altre resistenze

Il mito della Resistenza o la resistenza al mito? Per una (ri)lettura de La casa in collina di Cesare Pavese; L’elogio della fuga come resistenza politico-intellettuale ne La luna e i falò di Cesare Pavese; La politica della letteratura e il linguaggio dell’azione: ripensare il comune come processo costituente di antagonismo.

84 Capitolo terzo. Sud globale e autonomia

Narrazioni transculturali, dislocazioni identitarie e sconfinamenti geopolitici nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi; Resistenza e diserzione: lo spazio mediterraneo come luogo della fluidità transnazionale in Mediterraneo di Gabriele Salvatores.

108 Capitolo quarto. Esclusione, precarietà e contaminazione

Autonomy of migration: (de)territorialità e diritto di cittadinanza nella letteratura della migrazione; (Ri)narrare il Sud: la scrittura migrante come destabilizzazione politico-culturale e identitaria dell’immaginario meridiano; Scrivere “on/of the border”: contaminazioni identitarie e ibridazioni linguistico-culturali nella letteratura italiana contemporanea.

149 Bibliografia


 

Prefazione
di Enrico Palandri

Voglio dire due cose su questo bel libro di Vincenzo Binetti: la prima è che, tra i lettori italiani di Gilles Deleuze, Binetti mostra una profonda acquisizione del lavoro del filosofo francese e il superamento di un orizzonte segnato dolorosamente dagli anni Settanta che ha separato due generazioni nella riflessione su politica e cultura in cui si trova sempre e inevitabilmente invischiata ogni interpretazione filosofica del lavoro letterario. La schematizzazione italiana è naturalmente legata alle stagioni politiche e agli schieramenti. Il cardine di questa riflessione sono le pagine attente e lucidamente critiche sulla resistenza che si trovano nel capitolo su Cesare Pavese e in particolare sul personaggio di Corrado di La casa in collina, ma la si reperisce un po’ ovunque nel libro, in come legge Nanni Balestrini o Le vie del ritorno e anche altrove.
Credo che per i lettori più giovani sia necessario ridisegnare gli orizzonti delle interpretazioni contrastanti a cui si riferisce Binetti, altrimenti la novità del suo contributo rischia di essere annacquata in categorie arbitrarie, mentre al contrario sono radicate in vicende difficili e vissute. Tra il ’45 e l’89, e per certi versi anche oltre la fine della sua esistenza come organizzazione politica e quindi fino a oggi, il pci si legò e tentò di legare a lungo le proprie posizioni estetiche al neorealismo, dalla polemica tra Togliatti e Vittorini a proposito del Menabò fino a un’idealizzazione di narrazioni operaie anche in pieni anni Settanta. Il ’68, gli studenti, l’influenza americana delle canzoni di Bob Dylan e di Joan Baez, assorbirono invece il pensiero strutturalista che proveniva dalla Francia come una necessaria innovazione. Contribuiva certamente l’influenza di Italo Calvino, che lasciato il pci dopo l’invasione da parte dell’urss dell’Ungheria, si era stabilito a Parigi e frequentava Barthes, l’Oulipo, e aveva un suo emissario italiano soprattutto in Gianni Celati.
Lo strutturalismo arriva in Italia in quegli anni attraverso la necessità di emancipare una generazione di scrittori e intellettuali dal materialismo storico e dall’operaismo che sono così profondamente connaturati al comunismo italiano e creano spesso opposizioni che trascinano l’influenza francese su nuovi orizzonti, che però in certi casi travisano il pensiero degli autori originali. C’è una parte di questa influenza che viene dalla linguistica russa e i primi formalisti, da Osip Brik e Roman Jakobson attraverso la scuola di Praga fino al primo libro che in Italia importa queste idee (Giulio C. Lepschy, La linguistica strutturale, 1966); un’altra corrente discende invece dall’influenza di Émile Benveniste che si reperisce un po’ ovunque, dalla psicanalisi all’antropologia alla filosofia francese.
Così, mentre in Italia l’opposizione generazionale si radicalizza drammaticamente facendo del pci un padre della sinistra, anche al di là della sua centralità e capacità di amalgamare e guidare, le altre parti della sinistra finiscono con il diventare rivoli periferici. Il psi, che del pci era storicamente il padre, diviene un gruppo minoritario, non sufficientemente opposto all’influenza americana (e qui si vede ovviamente come sia l’urss a parlare attraverso il pci) mentre i gruppi della nuova sinistra rimangono schiacciati, emarginati, a volte volutamente ridicolizzati.
La ragione per cui questo discorso è interessante a proposito di Binetti è che i concetti di deterritorializzazione, linea di fuga, rizoma che caratterizzano il pensiero di Deleuze, vengono separati nella loro lettura italiana dal termine resistenza, che, egemonizzato dal pci, porta a leggere Deleuze in Italia come un filosofo leggero, legato appunto a una minorità generazionale e concettuale, anche se non si capisce bene di fronte a quale maggiorasco. Forse proprio al ritratto barbuto di Marx, poveraccio, che pur scappando dalla polizia esattamente come i sessantottini e settantasettini, finisce con l’incarnare nei paesi del cosiddetto comunismo reale proprio la figura paterna, autoritaria, che mette in soggezioni le proteste non radicate nel materialismo dialettico e nella classe operaia.
Questo scontro edipico nella cultura italiana non si risolve in realtà mai e continuerà a dominare la memoria del nostro dopoguerra. Ci sono momenti in cui i contrasti si rendono evidenti, di solito opponendo i giovani a un’idea della storia che si presenta come storicamente disincarnata, mentre a origini molto precise. Sono ’68, ’77, verdi, girotondi e sardine, tutti sempre rappresentati come periferia di una solidità istituzionale. Per questo è così bello che nel libro di Vincenzo Binetti l’opposizione tra Pavese e la sua generazione e quella successiva non venga riproposta. Al contrario, è proprio la radicalità dell’idea di resistenza che riemerge nella sua ricchezza concettuale e che in un certo senso affronta e smonta il modo in cui giunge a noi attraverso l’ortodossia comunista.
Basta leggere le lapidi che un po’ ovunque in Italia, da Piazza Maggiore a Bologna agli innumerevoli monumenti ai partigiani in giro per l’Italia commemorano i giovani italiani caduti combattendo il fascismo, per rendersi conto di quanto la resistenza partigiana cerchi di reinnestarsi nella tradizione risorgimentale, riappropriandosene. Il fascismo è in realtà altrettanto figlio di quella tradizione (l’interventismo, la retorica patriottica e via dicendo) di quanto lo sia il comunismo. Porsi come eredi del risorgimento ha a che fare proprio con l’interpretare la voce dei progenitori, additare il tradimento di chi ci ha messo nei guai e tentare di mondare il nazionalismo italiano dalla vergogna della guerra. Ma sempre di nazionalismo si tratta, e alla fine i tratti fascisteggianti della retorica patria riemergono anche a sinistra, non solo a destra. Ricostruire il paese dalla vergogna della sconfitta, certo, ma anche dall’aver dichiarato la guerra, dall’aver aderito così massicciamente agli ideali socialisti che sono naturalmente entrati in una versione nazionalista anche nel fascismo, non solo nella carriera di Benito Mussolini, ma in tanti che da un’adesione più o meno convinta al fascismo, come il nostro ex presidente Napolitano, diventano rapidamente comunisti alla fine della guerra. Verrebbe da dire che la voce autoritaria di tutta la generazione, e non solo dei comunisti, nel perseguitare i capelloni, per usare il termine con la carica omofoba e paternalista usata in un celebre articolo da Pier Paolo Pasolini, nascesse proprio dalla confusa e violenta conversione che fu necessaria a molti di loro. Tracce di fascismo le troveremo anche in Luigi Meneghello, che grazie al suo senso dell’umorismo riuscirà a sdrammatizzarne i momenti traumatici, ma resteranno poi e inevitabilmente in tutta la generazione che in quegli anni era stata educata, e purtroppo, per affetti familiari e il persistere di certe condizioni che produssero quell’ideologia allora, anche in generazioni successive.
Ma quello che interessa qui è quanto più interessante sia invece l’idea di resistenza che c’è in Deleuze e che Binetti riprende con convinzione e che viene così prepotentemente raccontata negli anni Settanta italiani negli ambienti alla sinistra del pci. La resistenza che ha in mente Deleuze non è un atto eroico che porti a delle medaglie, ma una pratica continua, un pensare il mondo che si mette di traverso, o piuttosto che non riesce a lasciarsi travolgere dalla simbolizzazione del capitalismo. In altre parole, è la vita stessa. Per questo parla eloquentemente attraverso donne e bambini, blm e tutto quel che nella storia è minore. Dispiace per Marx, esibito in grandi stendardi nella Piazza Rossa di Mosca in occasione delle parate, ma è proprio il sistema patriarcale che attraverso la sua immagine e la sua attenzione all’economia come struttura dei rapporti sociali ad essere alla fine risultata fatale al comunismo. Se la simbolizzazione (quella del denaro, dei ruoli sociali, dei comportamenti conformisti) è sempre astrazione dal reale di quello che Marx chiama valore di scambio, e cioè di una distanza tra le cose e la loro rappresentazione, la resistenza è ciò che cerca di restare attaccato alle cose. Per questo, come spiega Deleuze, la linea di fuga è un atto di resistenza, un’arma. Perché il capitalismo non è una macchina ferma, ma è qualcosa che trascina nella sua progressiva astrazione. Resistere, restituire al corpo la sua disobbedienza, ciò che non si piega e non si lascia tradurre nel capitalismo, capire che la letteratura e l’arte in generale o è questo reale che resiste ed esiste, o non è nulla, è capire cosa lega Cesare Pavese e Carlo Levi (ma anche Primo Levi o Elsa Morante, Romano Bilenchi e Italo Calvino, Gianni Celati e tanti altri) alla mia generazione.
Questo è il primo pregio di questo libro di cui volevo parlare: ricostruisce una continuità profonda, significativa che attraversa le fratture degli anni Settanta.
Il secondo è la scrittura di Vincenzo Binetti, che non si lascia mai entusiasmare da nessun gergo o retorica, si tiene stretto al proprio materiale persino quando indaga nella prima parte concetti come spaesamento e memoria (o perdita di memoria). Detto semplicemente, è una scrittura che viene dagli autori che lui legge e parla a loro, non alla letteratura secondaria degli autori, ma all’idea e l’invenzione di ogni opera.
Da questa bella lingua e dal suo impegno nasce un tono amico, un invito a un’amicizia che è a sua volta una forma di resistenza, e mi auguro che i lettori di questo bel libro lo accolgano.

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