Prendere le case

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Pietro Saitta

pp. 205
Anno 2018
ISBN 9788869481048

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Descrizione

Pietro Saitta
Prendere le case
Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle

Cosa accade quando l’antagonismo esce dai centri sociali e incontra la “subalternità”, quel vasto sottoproletariato caratterizzato da bassi livelli di istruzione, sospeso tra lavori precari e malpagati, che affolla le città del Sud? Il volume risponde a questo interrogativo proponendo uno studio etnografico sull’incontro tra il movimento politico e la popolazione dei “margini”, uniti dalla lotta per il soddisfacimento dei bisogni primari e per la casa. Andando oltre i classici temi della sociologia politica, comunemente centrati sulla conquista dello spazio pubblico da parte dei movimenti, questo saggio indaga soprattutto le forme mentali degli attori, le tattiche di penetrazione del gruppo dei “politici” in quello dei “subalterni”, le forme della pedagogia politica e quelle delle resistenze alla sua azione “civilizzatrice”. Comunismo, volontà di potenza, mafia e magia, compongono lo sfondo di una lotta serrata che non condurrà lontani, ma dalla quale, per ragioni diverse, nessuno degli attori può sottrarsi. Scritto in un linguaggio che cerca di riprodurre quanto più fedelmente quello dei protagonisti, Prendere le case è una etnografia totale, che svela gli anfratti della città meridionale e le difficoltà di una pratica politica antagonista e popolare nella società contemporanea.

Pietro Saitta è ricercatore confermato di Sociologia Generale presso l’Università degli Studi di Messina. Ha insegnato e svolto attività di ricerca presso numerose istituzioni italiane e straniere. È autore e curatore di diversi volumi e saggi dedicati all’economia informale, alla città meridionale e al crimine. Tra questi ricordiamo: Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita (Donzelli, 2013) e, per i nostri tipi, Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano (2015).

Rassegna stampa

Il manifesto – Cultura – 8.8.2019

Se i bisogni interrogano potenzialità e limiti della pratica politica
di Gennaro Avallone

Scaffale. “Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle” di Pietro Saitta per ombre corte. La cronaca di una «ricerca-militanza» nel movimento per il diritto all’abitare di Messina

La ricchezza dell’etnografia. La bellezza della scoperta. La necessità della critica e del dubbio. La durezza delle condizioni di vita di chi è senza casa. Così come di chi, sommariamente riconosciuto nella categoria di sottoproletariato urbano, da decenni e generazioni, vive di (in ultima analisi, subendole) clientele, favori, concessioni, tenendo sempre in bilico la propria dignità, mentre quella delle istituzioni risulta, alla fin fine, sempre salva.
È QUESTA DENSITÀ politica, sociale e di ricerca che incontra, e con cui si scontra, chi legge Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle, scritto da Pietro Saitta per ombre corte (pp. 199, euro 17). L’autore, ricercatore in Sociologia generale presso l’Università di Messina, propone, attraverso la tecnica dell’io narrante, quella che egli stesso definisce una «ricerca-militanza». Immerso per cinque mesi in un impegno di osservazione partecipante, seguita da una successiva attività collaterale oltre che di documentazione, Saitta prende parte in maniera attiva alle iniziative di una sindacato di base autorganizzato impegnato nella lotta per la casa a Messina dal 2017.
NELLA CITTÀ DEL SINDACO Renato Accorinti, di cui Saitta, in premessa, evidenzia una serie di limiti politici, criticandone anche le retoriche, specialmente quelle di «città ribelle» e di «città dei beni comuni», si sviluppa, soprattutto attorno ad una militante, presentata nel libro con il nome di Crepax, una mobilitazione per il diritto alla casa. In questo movimento, l’autore, anche egli militante politico e del mondo controculturale, si trova a confrontarsi con forme, modalità, capacità, emozioni ed errori tipici degli stili di azione e pensiero di quell’area politica e culturale che spesso si autodefinisce come «il movimento».
NEL RAPPORTO con Crepax e con le persone coinvolte nella lotta per la casa nel quartiere Zafferia, Saitta ripercorre anche la bellezza e le difficoltà (a volte, estreme) di alcune forme della militanza politica. Egli le definisce un vero e proprio lavorio: «un particolare modo, cioè, di essere presenti sulla scena vedendo e non vedendo, rifiutando i pensieri o facendoli virare in una direzione compatibile con l’ideologia o ’sociologia’ propria del gruppo di appartenenza. La perfetta base, inoltre, per vedere maturare a latere e in sincrono altre emozioni: in primo luogo la frustrazione e la rabbia, che, in un perfetto circolo, esplodono incanalandosi verso l’interno e facendo conflagrare le organizzazioni periodicamente».
LA MESSA IN EVIDENZA, dall’interno, dei caratteri che la militanza può assumere nel movimento, o, più in generale, nell’area riconosciuta come sinistra antagonista è un utile invito a ragionare, anche collettivamente, sulle potenzialità e i limiti di una pratica politica che non solo può essere totalizzante, investendo corpo, relazioni, emozioni e desideri nella vita quotidiana, ma anche molto contraddittoria.
Si pensi, ad esempio, al fatto che è sempre attiva la possibile deriva imposta dalla «ferrea legge dell’oligarchia» o, addirittura, verso la «monocrazia», «pur in presenza di un’ideologia ufficiale fondata sulla dispersione del potere, l’assemblearismo, i comitati autonomi diffusi sul territorio». Ma si pensi anche al tipo di disciplina che può caratterizzarla, basata, come nel caso di Crepax, «sulla fatica, il sacrificio e la mortificazione dei bisogni», oltre che su un atteggiamento scettico, e non di sospetto, verso i lavori intellettuali.
E PROPRIO I BISOGNI sono al centro di questo libro. Di chi è senza casa, così come di chi fa il militante nel movimento, cercando di costruire accumulazione di potere, percorsi di liberazione, esperienze di autonomia. Bisogni che troppo spesso impattano in limiti politici oltre che culturali, ma anche nei rapporti di forza con i quali devono confrontarsi, attivi a diverse scale territoriali, e determinati da vari fattori, tra cui quello del tempo, pressante quando si vive in difficoltà abitativa, in assenza, da troppi anni ormai, di una politica nazionale adeguata a tutelare il diritto alla casa.

UN ASSAGGIO

Introduzione

Il contesto dello studio

Soggettività e autonomia. È intorno a queste due parole chiave – o, forse, due feticci – della produzione culturale e politica contemporanea che questo libro ruota. Espressioni, tra l’altro, per cui non esistono significati o definizioni univoche, sospese come sono tra differenti impieghi disciplinari o sfumature di natura insieme politica e accademica. Parzialmente liberi dunque di oscillare tra semantiche e riferimenti, in questo testo impiegheremo il primo dei due termini, soggettività, per riferirci al tema dell’emersione di una coscienza politica individuale e collettiva. All’aspirazione, cioè, di costruire individui e gruppi coscienti del proprio posizionamento nel campo dei rapporti di forza – oppure “di assoggettamento” – che li producono, forzano o rendono ciò che essi sono in rapporto alle condizioni materiali oggettive, alla vita quotidiana, ai bisogni, alle prospettive e alle percezioni.
Di “autonomia”, invece, parleremo come di un anelito alla libertà e all’affrancamento da quegli stessi rapporti di forza. Autonomia, dunque, intesa come spinta all’indipendenza, all’autodeterminazione e, in ultima analisi, alla lotta.
Si tratta dunque di un libro necessariamente lento, dedicato a un processo di “liberazione” mai compiutosi. Ma anche ai paradossi, resi particolarmente evidenti da un’ulteriore parola chiave intorno a cui il testo si dipanerà: “pedagogia”. Ossia quel processo di trasmissione di ideologie della libertà e tecniche di lotta che però postula – magari in modo semi-occulto – maestri, allievi e gerarchie. E, soprattutto, che libera assoggettando.
Questi aneliti, processi e contraddizioni verranno analizzati indagando la vita di un sindacato autonomo dedito alla lotta per la casa, ma anche e soprattutto alla formazione di soggettività comuniste rivoluzionarie. Sindacato, dunque, inteso non semplicemente come uno strumento per avanzare diritti basilari e rispondere ai bisogni primari di un sottoproletariato urbano generalmente depoliticizzato (per lo meno secondo visioni politologiche “istituzionali”, assai poco “comprendenti”), ma per trasformare una popolazione oppressa, ampliandone la coscienza politica e la consapevolezza di classe, fornendole strumenti di partecipazione politica e sottraendola alle clientele politiche, alle strumentalizzazioni interessate di comitati elettorali, al razzismo e agli identitarismi di matrice nazionalista.
Nel contesto osservato fare sindacato è dunque una strategia di penetrazione culturale e politica: un modo di esercitare egemonia antagonista e comunista a partire dai bisogni di una popolazione normalmente collocata ai margini della cittadinanza. Una popolazione, cioè, composta da lavoratori poveri, stagionali e precari, occupati per lo più in edilizia o in servizi di bassa qualifica; esposti a pratiche locali, alcune delle quali egualmente diffuse nel privato così come nel pubblico, consistenti in ritardi indefiniti nell’erogazione dei salari, nelle assunzioni irregolari se non del tutto in nero, oppure nel mancato versamento dei contributi. Con nuclei familiari, inoltre, che appaiono spesso monoreddito, affollati e costretti a vivere in condizioni abitative inadeguate in ragione delle condizioni fisiche delle dimore (anche quelle di edilizia pubblica) e/o dell’esiguità dello spazio a disposizione dei membri. Una popolazione, infine, posta frequentemente dinanzi al dilemma della spesa; quello, cioè, tra il pagare l’affitto di casa oppure onorare altre spese più impellenti (le bollette, il cibo, i vestiti per i bambini, i medicinali).
Sin dagli anni successivi alla ricostruzione postbellica e all’affermazione del locale potere democristiano, questa classe – tutt’altro che residuale se si pensa che nel 2015 il 31% della popolazione della città considerata dichiarava un reddito compreso tra zero e diecimila euro, e il 13% di essa tra dieci e quindicimila euro (Comune di Messina, 2016, p. 27) – è apparsa tanto intrappolata quanto attivamente coinvolta in relazioni clientelari che costituiscono storicamente un tentativo illusorio di arginare la marginalità, dando corso a “politiche personali”, per lo più aliene sia da idealismi sia da interessi di classe, volte a conseguire briciole di benefici legate al miraggio di sussidi, pensioni, o lavoro per sé o per i propri familiari, facilitazioni nell’ottenimento di licenze edilizie, oppure in un mero scambio economico circoscritto al momento elettorale (voti in cambio di denaro, pasta o altri beni di limitato valore).
Una classe, inoltre, che è sovente liminale. Che pendola, cioè, tra lavoro e illegalismi, tra attività sotto-retribuite e reati. E che anzi vede talvolta nel crimine un modo di ridurre la disuguaglianza ed effettuare una ridistribuzione, sottraendo ai benestanti per dare a sé.
Ma la città siciliana di cui ci apprestiamo a parlare – Messina – è anche un luogo che sa sorprendere. È infatti la città che nel 2013 elegge un sindaco come Renato Accorinti, espressione di una lista indipendente denominata Cambiamo Messina dal Basso, proveniente dal movimento pacifista degli anni settanta e ottanta, simbolo della lotta “No Ponte” e vicino ai centri sociali; in anni recenti “agitatore” cittadino in una lunga serie di piccole battaglie locali e, da ultimo, autore di un’agguerrita campagna elettorale che si svolgerà per buona parte nei quartieri popolari. Un candidato sindaco sedicente anarchico che riesce a intercettare il sentimento popolare così come quello delle classi medie progressiste, suscitando aspettative che non è esagerato definire messianiche (Palumbo 2016) e promettendo un riscatto che non avrà mai purtroppo luogo, disseminando così una profonda delusione e causando ben presto abbandoni, fratture e rotture dolorosissime in seno alla sua comunità politica così come in quella dei suoi elettori (Lo Presti e Sturniolo 2017; Palumbo 2017).
La vicenda che osserviamo ha dunque luogo nella fase finale del sogno di una “città ribelle”, tanto per impiegare l’espressione resa celebre dal sindaco napoletano De Magistris, presa a prestito dal linguaggio della sinistra antagonista e accademica, utile a indicare la rete di quei sedicenti comuni, tra cui Messina, in cui il “popolo è diventato protagonista del suo destino”.