La Giungla di Calais

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a cura di Michel Agier

pp. 166
Anno 2020
ISBN 9788869480935

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Descrizione

La Giungla di Calais
I migranti, la frontiera e il campo
a cura di Michel Agier

Da aprile 2015 a ottobre 2016, sono stati circa diecimila i migranti che hanno vissuto in condizioni estremamente precarie nella “Giungla” di Calais, accendendo passioni, polemiche e timori, ma anche grandi solidarietà. Michel Agier, riconosciuto a livello internazionale per il suo lavoro sull’antropologia urbana, i migranti e i rifugiati, ha riunito ricercatori e attivisti (sociologi, architetti, volontari…) in un progetto rivolto a comprendere l’“evento Calais” – un oggetto politico, mediatico e simbolico inedito. In effetti, tutte le reazioni di cui la Giungla è stata oggetto, tutte le violenze fisiche e morali contro i suoi abitanti e tutti i tipi di solidarietà (umanitarie e politiche, individuali e associative, calesiane, britanniche o europee) formano un concentrato delle domande che attraversano oggi tutta l’Europa: come si definisce un “noi” locale, nazionale ed europeo che sia attento alla propria relazione con gli “altri” e con se stesso? Si può, e come, reinventare l’ospitalità? A partire dai campi o contro di essi? Quale futuro si inventa in questi luoghi di emarginazione e di eccezione che finiscono con l’assomigliare a occupazioni e a nuovi spazi politici?

“La questione al centro della ricerca di Agier e collaboratori è la vita effimera e insieme testarda di un “campo”, non diversa da quella di altre giungle, metafora perfetta dei contemporanei spazi urbani e delle forme di socialità che li caratterizzano e li animano. È questo il merito maggiore del libro: interrogare la moltitudine di atti e di interessi amministrativi, politici, sociali, economici che nutrono la vita di un campo di richiedenti asilo, facendo emergere la produzione di discorsi, di azioni politiche, di relazioni, e ciò tanto fra gli immigrati quanto nelle comunità locali” (Roberto Beneduce).

Michel Agier, antropologo, direttore di studi presso l’ehess e ricercatore presso l’Istituto di ricerca per lo sviluppo (ird), conduce e pubblica ricerche sulla globalizzazione, sui migranti e sulle frontiere da quasi vent’anni. Con il contributo di Yasmine Bouagga (sociologa cnrs), Philippe Wannesson (blogger), Cyril Hanappe (architetto, Scuola di Parigi-Belleville), Mael Galisson (responsabile associativo) e Mathilde Pette (sociologa, Università di Perpignan).

RASSEGNA STAMPA

DOPPIOZERO – 30 Aprile 2019

Elogio delle frontiere?
Gianluca Solla

Devo pensare alla posizione di Debray e come essa smarrisca il significato più radicale dell’esperienza del confine, leggendo La Giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo, il libro che l’antropologo Michel Agier ha scritto insieme a un’equipe composita di ricercatori e ricercatrici di varie discipline. Le analisi della ricerca si concentrano su quell’area variegata ed eterogenea sorta nei pressi della città di Calais, porto del nord della Francia affacciato sul Canale della Manica e luogo di partenza dell’Eurotunnel. La storia recente della regione di Calais è strettamente legata ai tentativi di raggiungere l’Inghilterra da parte di popolazioni migranti e di quelli che si potrebbero chiamare rifugiati senza rifugio. Accanto a esperienze di controllo della migrazione e di campi d’emergenza allestiti dalla Croce Rossa prima e dal governo francese poi, si è sviluppata quella che in gergo viene ormai chiamata “la Giungla”, un insieme di assembramenti di baracche, tende, rifugi di fortuna, dove sono arrivate a vivere sino a 10.000 persone. Tra smantellamento del campo e le forme di dispersione degli occupanti, la vicenda di Calais è sintomatica di quella politica della di non-accoglienza che in Europa si è voluta chiamare di volta in volta “crisi migratoria”, “flusso di clandestini” o con analoghe espressioni. Eppure “che li si chiami “migranti” o “rifugiati”, gli abitanti della bidonville di Calais condividono una comune esperienza di abbandono del paese d’origine nel tentativo di stabilirsi in un luogo in cui poter trovare protezione e prospettive per il futuro”… continua a leggere >

 


il manifesto – Cultura – 13.09.2019

Praticare l’ospitalità per dire all’altro «non sei mio nemico»
di Gianpaolo Cherchi

FESTIVALFILOSOFIA. Parla l’antropologo francese Michel Agier, domani a Carpi per la lectio magistralis sul «divenire stranieri»

«Nel linguaggio etnologico la persona è l’informatore privilegiato, quell’individuo che rende comprensibile l’intero gruppo sociale». A esserne sicuro è Michel Agier, directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove conduce ricerche in ambito etnografico sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, occupandosi anche di antropologia urbana.
Quest’anno sarà per la prima volta ospite al FestivalFilosofia, dove domani terrà a Carpi una lectio magistralis sul divenire stranieri. Argomento che ben si attaglia al tema scelto per la nuova edizione del festival: Persona: questione delicata, da maneggiare con cura. «Si tratta di un vecchio paradigma etnografico – continua Agier – che è andato incontro a diverse critiche e che oggi è stato portato fuori dalle sue cornici tradizionali, reso in qualche modo più funzionale a una società globalizzata e frammentata».

In che senso funzionale?
Sia in un contesto come i legami di parentela che in quello moderno dello Stato, il concetto di persona si riferisce a una relazione fra la parte e il tutto. Una relazione fatta di vincoli e di libertà, di diritti e doveri. Ma nella definizione di questo concetto ne intervengono inevitabilmente altri, come quello di identità, che può tuttavia riferirsi non solo al lignaggio (genitori, antenati, discendenti) ma anche alla cittadinanza, ovvero alla precisa modalità di appartenenza istituzionale di un individuo alla società.

E che differenze ci sono fra la persona e il cittadino?
La domanda è malposta. La cittadinanza non ha completamente soppresso la persona, proprio perché è sempre legata alla nozione di identità. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere in che modo una persona immersa in una rete sociale (alla quale è legata da rapporti di parentela o alla quale ritiene per varie ragioni di appartenere) riesce a emanciparsi e diventa il soggetto di un discorso pubblico e di un agire politico? Questa è la domanda che mi pongo nel mio lavoro. E la risposta non si trova nella figura dell’individuo isolato ma piuttosto nei meccanismi di formazione di nuove comunità politiche, che danno senso alla nozione di persona, oggi in un modo più libero ed effimero rispetto al passato, più «liquido» come direbbe Bauman.

Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla nozione di «campo» (si pensi al volume «Un monde de camps», ma anche al libro (tradotto da Ombre Corte) «La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo). Cosa intende e qual è il suo coinvolgimento teorico e politico con il concetto di «campo»?
A un certo punto le mie ricerche mi hanno imposto di dover dare un senso alla nozione di campo: in Africa o in Medioriente, per esempio, il «campo» non si riferisce affatto ai campi di sterminio o alla Shoah, come avviene invece in Europa, dove la dimensione tanatopolitica domina la riflessione (pensiamo ad Agamben).
Certo, esiste una dimensione oscura in qualsiasi forma di campo, anche nei campi umanitari: una forma di «morte sociale» che anticipa e prepara alla morte fisica, come diceva Hannah Arendt. È qualcosa che ha a che fare con la scomparsa del quadro sociale ordinario delle persone e con la loro separazione in uno spazio la cui stessa esistenza, sociale e politica, è negata. Ma detto questo, il campo rimane anche uno spazio di vita: ogni agglomerato umano ricrea forme di vita, sociali, familiari, culturali, politiche… continua a leggere >

UN ASSAGGIO

Introduzione
Un libro per capire

Il 24 ottobre 2016 la Giungla di Calais ha cominciato a essere evacuata. L’amministrazione competente del ministero dell’Interno francese e la polizia, insieme a membri di svariate associazioni, hanno condotto gli occupanti del campo-bidonville verso i pullman che li avrebbero portati in centri di accoglienza di cui essi non conoscevano né il nome né il luogo.
Nei primi tre giorni furono così trasferite più di 3.000 persone. Il terzo giorno cominciò la distruzione delle abitazioni e delle strutture collettive costruite nei precedenti diciotto mesi di occupazione e insediamento. Alla fine della stessa settimana, le autorità amministrative annunciarono che lo “smantellamento” era terminato. In realtà, la totale distruzione proseguì ancora per diversi giorni. Alla fine rimasero solo i container che, quasi un anno prima, il governo aveva deciso di sistemare al centro della Giungla. Questi furono smontati e trasportati altrove alcune settimane più tardi.
Considerato un successo, lo smantellamento della Giungla si collocava all’inizio di un’importante campagna elettorale nazionale (quella delle elezioni presidenziali di aprile e maggio 2017) durante la quale il governo in carica tentava (invano) di riconquistare un elettorato ampiamente perduto. Per questo, volle dare mostra di “fermezza” e di “umanità”, come recitava il “copione ufficiale”. Soprattutto, lo Stato volle mostrarsi capace di eliminare il problema pubblico dei migranti facendo scomparire i migranti stessi e ogni traccia della loro inscrizione nel luogo e del loro insediamento sul suolo. Volle così dar segno di essere uno Stato forte, che protegge il territorio contro gli stranieri indesiderabili.

La lunga storia della Giungla

Tuttavia, alcuni mesi dopo, alla fine di gennaio 2017, tutta la stampa e il mondo associativo riconoscevano che i migranti si trovavano ancora a Calais. Quelli che nell’ottobre 2016 non erano voluti salire sui pullman si erano dispersi nella regione attorno alla città e ora vi si riavvicinavano, mentre altri vi facevano ritorno da più lontano, dopo aver constatato che i centri di accoglienza (“Centres d’accueil et d’orientation”, o cao) nei quali erano stati portati al momento dello smantellamento erano dei vicoli ciechi perché non eliminavano gli ostacoli amministrativi che si frapponevano alle loro richieste d’asilo né riuscivano a convincerli a rinunciare all’Inghilterra. La storia dei migranti di Calais non si è dunque conclusa con lo “sgombero” dell’ottobre 2016 (studiato in dettaglio più avanti, nel capitolo quinto). È una storia ben più lunga che è opportuno raccontare, situandola nel suo contesto storico e geografico, europeo e regionale, così come è opportuno comprendere ciò che è accaduto in quella bidonville – o meglio, in quella vera e propria città in divenire – che il mondo intero ha chiamato “La Giungla” e dove, almeno per un certo periodo, hanno abitato 10.000 persone. Attraverso quali folli meccanismi l’Europa, e in particolare la Francia e il Regno Unito, hanno potuto “inventare”, “costruire” e poi distruggere quel luogo innominabile? Così innominabile che si è finito col farsi ancora più paura chiamandolo “la Giungla”, riprendendo, distorcendo e soprattutto ri-significando il termine pashtun djangal (che originariamente non indica nient’altro che un angolo di foresta), per occidentalizzarlo e portarlo così a designare in questa prospettiva, francese ed europea, un luogo negativamente esotico, inquietante, più lontano di quanto non fosse nella realtà, e meno umano.
Ciò che racconta questo volume è esattamente il contrario. Grazie a una ricerca cronologica e monografica condotta da un’equipe che raggruppa ricercatori, studenti e attori del mondo associativo, essa offre dei riferimenti per comprendere ciò che accade a Calais da più di quindici anni, e che non ha smesso di accadere con lo smantellamento del campo e la dispersione degli occupanti, oltre che per descrivere e analizzare ciò che è accaduto all’interno della Giungla stessa tra l’aprile 2015 e l’ottobre 2016, date rispettivamente dell’apertura e della distruzione del campo. Il quadro globale della Giungla è quel fenomeno che in Europa è stato chiamato “crisi dei migranti”. Ma il legame causale tra la formazione e lo sviluppo di questo luogo e la suddetta crisi è molto indiretto. Ciò che accade lungo la frontiera franco-britannica ha origine negli anni Novanta. È importante collocare questa situazione in un contesto locale e regionale più lontano: quello delle frontiere esterne dell’Europa dopo il 1995 e della costituzione dello spazio Schengen (in relazione, per esempio, con le frontiere di Ceuta, Melilla o Patrasso) (Carta 1). Allo stesso tempo, assumere Calais come case study significa descrivere una situazione esemplare della crisi europea in generale.
La chiusura nel 2002 del campo di Sangatte (il centro di accoglienza e di assistenza umanitaria d’emergenza della Croce Rossa – 1999-2002) deve (già) indicare, secondo il governo francese dell’epoca, che “a Calais non si passa più”. Tuttavia, migliaia di migranti di differenti generazioni e nazionalità (Kosovari, Curdi, Afgani, Eritrei, Sudanesi, Iracheni, Siriani, ecc.) continuano a vagare nella regione di Calais e Dunkerque. Tentano di passare in Gran Bretagna nonostante gli accordi franco-britannici per trattenere i migranti sul territorio francese, siglati a Le Touquet nel 2003. La nascita del campo di Calais – chiamato anche “bidonville di Stato” o “New Jungle” al momento della sua creazione nell’aprile 2015 – fu un episodio di questa lunga storia di frontiera. Un episodio certo singolare, che si inscrive in un contesto segnato dell’arrivo eccezionale di un milione di migranti in Europa nel 2015. Da Lesbo a Calais, da Idomeni a Ventimiglia, centinaia di accampamenti, centri di accoglienza e di detenzione, hotspot e altri luoghi di confino si sono sviluppati come non mai nei pressi delle frontiere, nelle periferie e fino nei centri delle città d’Europa.