Il tempo della disobbedienza

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Simona Taliani

pp. 207
Anno 2020
ISBN 9788869481383

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Descrizione

Simona Taliani
Il tempo della disobbedienza.
Per un’antropologia della parentela nella migrazione
Postfazione di Pier Giorgio Solinas

I vincoli connessi a quella che nella letteratura è stata definita la diaspora criminale nigeriana scandiscono il tempo delle giovani donne una volta arrivate in Europa, a partire dal peso del debito contratto. Segnati da una violenza agita il più delle volte da altre connazionali, i loro destini rivelano le conseguenze di forme di coercizione psichiche, fisiche e morali.
Il loro corpo si fa così officina, spazio dove si “cucina” e si consuma un dolore che testimonia di un passato infinito: cicatrici, ustioni e morsi denunciano i delicati riequilibri di potere; fitte e bruciori rivelano un insulto d’organo, o un attacco agito il più delle volte nel registro magico e stregonesco. E poi ancora: gli aborti spontanei e le interruzioni di gravidanza, i figli presi in adozione, la perdita della propria discendenza ricordano che il peggio non si scongiura con l’emancipazione dallo sfruttamento.
Queste donne non rimangono però passive, né parlano solo da vittime. Se hanno deciso di lasciare il loro paese, è per separarsi a ogni costo da una vita che non riservava loro nulla di buono. Quando si oppongono alle decisioni di un giudice o criticano l’operato dei servizi socio-assistenziali è per mantenere un legame che mai avrebbero pensato qualcuno potesse spezzare. Certo, ogni insubordinazione alle aspettative di genitorialità degli enti preposti alla tutela del minore la pagano cara. Eppure non sono poche a mostrare la loro capacità di rispondere senza dare segno di sottomissione.
A partire da una ricerca lunga vent’anni e condotta tra Torino e Napoli, l’etnografia della migrazione nigeriana e della sua cifra distintiva (quella di un debito al contempo economico e simbolico) contribuisce a illuminare il valore sociale delle “persone” e delle “cose”. Il lavoro esplora sia l’anatomia di un potere che si manifesta nel rito, sia la conoscenza necessaria tanto al sistema di assoggettamento, quanto alla cura di chi vuole riprendersi le manciate di vita che restano.

Simona Taliani insegna Antropologia dell’infanzia all’Università di Torino, dove è ricercatrice presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società. Oltre ai contributi apparsi su numerose riviste internazionali (“Africa”, “Cahiers d’études africaines”, “Social Compass”, “Politique africaine”), è autrice con Francesco Vacchiano di Altri corpi. Antropologia ed etnopsicologia della migrazione (Unicopli, 2006). Più recentemente è apparsa l’edizione ampliata e riveduta del suo Il bambino e il suo doppio (FrancoAngeli, 2019).

Rassegna stampa

UN ASSAGGIO

Postfazione
di Pier Giorgio Solinas

Quanto vale un essere umano? Come per ogni altro oggetto di mercato, oggetto animato in questo caso (animale, schiavo, figlio venduto per essere adottato…) si tratterà di vedere, di stimare la sua “utilità” e i benefici che riceverà il possessore nel godimento di quel bene. Ma si tratterà anche di considerare quante spese, quanto lavoro e quante risorse l’acquirente avrà dovuto impegnare per ottenerlo. Dunque, quanto “costa” e quanto “rende”.
Il mercato clandestino delle prostitute immigrate, ragazze fatte oggetto di tratta, fra il mondo criminale del racket della prostituzione, all’arrivo, e il traffico di aspiranti migranti alla partenza non si sottrae alle regole ciniche dello sfruttamento e del profitto.
Una giovane fornitrice di sesso a pagamento vale quello che rende e vale quello che costa. Quello che costa va messo nel conto delle passività e delle spese di esercizio (spese e investimenti di potere, di violenza, di somministrazione assidua della paura), il costo di “produzione” della prostituta. Da ragazza deportata con l’illusione di una nuova vita felice in Occidente, con un lavoro e una nuova ricchezza (e dunque l’idea di diventare altro, o anche solamente guadagnare soldi da mandare ai familiari in Nigeria), al diventare prostituta in cattività. Una “domesticazione” che comporta addestramento forzato al lavoro, educazione sistematica all’asservimento, controllo, correzione, esercizio continuato della tortura (fisica, psicologica, sociale).
Quello che “rende” naturalmente sta nel fatturato, nell’incasso quotidiano delle tangenti sui compensi per le prestazioni sessuali vendute sul mercato ordinario che la società di accoglienza tiene sempre aperto. È qui fra l’altro che l’emisfero criminale dell’offerta e quello legale della domanda si incontrano. Il cliente sceglie, compra, consuma e regola il conto (o consuma dopo aver regolato): la sua parte gode di una indisturbata garanzia di legittimità, esercita in pieno il suo diritto normale. Dall’altra parte, l’offerta del sesso non potrebbe affluire se non fosse nutrita dalla pratica della violenza, della coercizione, della minaccia.
È un po’ come uno sportello di servizio e di vendita, uno sportello che separa l’utente dal fornitore, un’interfaccia a due lati: da una parte il pubblico, i clienti che fanno la fila per scegliere la merce in vendita e ritirarla; dall’altra il mercato ha i suoi spazi (marciapiedi notturni dei viali di periferia, parcheggi fuori mano, ecc., le sue regole, le sue tariffe, i suoi tempi). Dall’altra parte, al di qua dello sportello, sul retro, come sul retro della persona di tratta, una squallida compagnia criminale gestisce il servizio.
Ora, se il prezzo delle singole forniture (un’ora, un certo tipo di prestazione) si può facilmente conoscere (cinquanta, trenta, dieci euro?), molto più oscuro appare il “prezzo” dell’intero, della persona-merce. Per un verso sarà la somma da restituire, il prezzo del riscatto che il padrone (la madame e i suoi associati nell’impresa di tratta) esige ed estorce con la minaccia e la paura.
Quanto? Le cifre che si leggono negli spiragli che la cronaca apre saltuariamente, e che l’etnografia di Simona Taliani produce nella sua inchiesta, suonano come mostruosamente inverosimili. Fatte apposta per far sentire il nodo scorsoio della paura al di fuori d’ogni reale ragione contabile. Ventimila, trentamila euro, più o meno, e sempre in un oscillare continuo di più e di meno. Tradotto in quote da versare al padrone o alla padrona del debito, significa qualcosa che in pratica non avrebbe mai fine, un cappio che si riproduce a ogni giro della corda e che non può trovare scioglimento se non con due esiti di rottura: o l’annientamento della ragazza tenuta in cattività (la sua morte, o la sua vendita ad altri padroni); o la rivolta estrema, la fuga e il tradimento: la vittima della tratta si rivolta contro il suo aguzzino e cercherà a sua volta di annientarlo, o almeno di spezzare il nodo che la tiene prigioniera.
Ma c’è un ulteriore confronto da prendere o mettere in conto quando si tratta del valore della persona, di questo genere di persona. Davvero trentamila euro possono rappresentare un prezzo congruo per un bene come questo? Non so che cosa potrebbe rispondere una compagnia di assicurazioni se le venisse posto il quesito. Di sicuro, i parametri correnti per le polizze che normalmente si stipulano sul mercato delle assicurazioni sulla vita, sugli infortuni, sugli indennizzi per danni fisici o morali, prevedono cifre molto più alte, più alte, e più precise, quando si tratta di gente normale, non di clandestini tenuti in ostaggio, evidentemente. Cifre di dieci, venti, cento volte più alte? In ogni caso, è come se qui la vita o la salute, o la libertà di una persona tendesse all’infinito, o quanto meno al limite più alto possibile: milioni di euro, decine di milioni di euro. Anche qui, ciò che fa variare il prezzo sono i parametri sociali e di mercato nel mondo degli interessi, delle utilità, dello status dell’assicurato. Teoricamente, il valore della vita si può calcolare solamente in modo indiretto, in base a quanto si è disposti a pagare per riscattarla.
È la scommessa che nel mondo del crimine fanno gli autori d’un sequestro di persona: per riavere vivo vostro padre, vostra figlia dovete pagare un riscatto di milioni e altri milioni… Non c’è prezzo che possa rispondere in termini oggettivi al valore della vita umana. Non occorre insistere nel calcolo, e sarebbe francamente fastidioso provarci, ma la scena del confronto non può mancare di indurci a riflettere.
E allora: debito e riscatto, prezzo e valore; poche migliaia di dollari valgono la vita di una bambina-ragazza che si tiene a forza a battere nei dieci metri di marciapiede perché porti ogni sera alla tenutaria la rata quotidiana di un debito che non si estingue mai, e dall’altra parte centinaia di migliaia, milioni di risarcimento dovranno essere pagati per la vita di un normale cliente che ha sottoscritto una polizza formalmente stipulata alla luce del sole.
Il fatto è, bisogna ripetere, che il “valore” di cui si sta parlando, e soprattutto il prezzo, è intriso di inganno; la sua efficacia, la sua forza di contratto risiede nella violenza di cui è intessuto, somministrata dalla parte che domina a quella che è dominata, violenza che unisce potere e appartenenza: le due parti fanno parte (il chiasmo verbale è voluto) dello stesso corpo, dello stesso organismo di sfruttamento.
Temo che quanto ho appena detto possa suonare sgradevole. Non si dovrebbe separare scrupolosamente il carnefice dalla vittima? Il delitto dall’innocente? Non è forse evidente il fossato che distanzia colui che infligge violenza da colui che la subisce? Ebbene, di sicuro lo è quando si tratta di giudizio morale, ma lo è meno allorché ci si sposta sul terreno della vita e della sopravvivenza. E del campo terribilmente incerto in cui la vita sfiora continuamente la morte, in cui il potere dell’uno si nutre della vita dell’altro.
Senza questo elemento, senza la consapevolezza del fatto che il male non consiste semplicemente nella “assenza di bene” ma che occorre fare un passo più in là per coglierne la dinamica e la natura, ogni discorso resta mutilo. Un passo che deve uscire dal mondo diviso in due regni, indipendenti, dove cioè il negativo comanda nella parte inferiore, nel sottosuolo, e il positivo occupa quella superiore, luminosa e nobile.
Quando la vittima viene resa partecipe dell’abominio e indotta a stringere con le sue stesse mani il collare di ferro che le si chiude intorno al collo, quando le ragazze sfruttate nel traffico si trovano a mettere il proprio corpo come pegno del contratto, a “impegnare se stesse” come scrive Simona, non siamo più davanti a un fatto di semplice manomissione, o a una privazione di diritti. Quel che si produce è l’induzione dell’assoggettamento: fare della vittima una parte attiva della sua schiavitù. Non solo vittima “consenziente”, ma creatura che si genera e si rigenera entro la macchina fisica, economica e simbolica dello sfruttamento.
È per questo motivo che non basta cercare le ragioni del funzionamento di un dispositivo così perverso nella semplice categoria di tradizione (termine che, in questo campo, echeggia senza troppa distanza ciò che comunemente si designa come “superstizione”).
Il cocktail denaro-sangue-feticcio (ébo), ai nostri occhi triviale, non si rivela pienamente, come sempre accade quando si tratta di simboli, non si comprende e soprattutto non si spiega fintanto che viene trattato come un composto di significanti. Il suo trucco, il codice interno della sua impenetrabilità, che ne protegge l’efficacia, sta proprio nel fatto che non è messo in moto, non si costruisce per poter essere spiegato. Deve andare, molto al di là dei segni che comunica, deve produrre effetto oltre la dimensione raggiungibile dalla coscienza. La sua forza non risiede nelle parole che vengono pronunciate nel rituale di giuramento e di in-pegno e neppure nelle figure dei vari attori di potere, la madre-didietro, il prete vudu, e neppure nel denaro del debito che minaccia a sua volta come un feticcio mostruosamente vendicativo.
Sta piuttosto, questa forza, nel togliere alla vittima la sua stessa anima (psyké), mettere e prendere in pegno la coscienza, la volontà, la stessa identità di altri esseri umani. Non esistono farmaci che possano curare una coscienza che non possiede più se stessa perché è tenuta prigioniera da altri. Una lunga e sperimentata pratica e storia di ricerche mostra a chi le voglia studiare quanto sia ricorrente e durevole nelle più diverse culture la dottrina del “prendere”, del far proprio l’essere intimo di una persona.
Un mestiere incerto e complicatissimo quello del trafugatore di anime, e quanto mai precarie, variabili e fragili le tecniche a disposizione. Ma quando queste competenze si fondono con l’impresa criminale, o semplicemente si mettono al servizio dell’avidità speculatrice oppure quando e se questa avidità si personifica e si fa cannibale, allora il potere che è in grado di sprigionare sembra sfuggire a ogni capacità di contrasto. La ragione non può far altro che cercare di smascherare l’inganno, denunciare la falsità e l’illusione, ma difficilmente si mostrerà capace di comprendere i suoi modi di rappresentare e operare. O, piuttosto, quando cercherà di farlo, imboccherà la via, a sua volta ingannevole, di tradurre nel proprio linguaggio l’opera, l’agire e il sentire che vede muoversi nel “mondo magico”.
L’oscurità, il nemico intimo (the intimate enemy, come dice Ashis Nandy) non perde per questo la sua impenetrabile indecifrabilità. Forse anzi la traduzione scientifica del processo – compresa quella antropologica – riveste di una copertura di normalità, di normalità fenomenologica quel che non riesce a cogliere nel profondo. Credo che l’esperienza di cui parla questo libro, e soprattutto il rapporto di cura che si coglie attraverso il racconto, descriva proprio questo insuperabile dramma. Il dramma cioè del misurarsi con l’incompatibilità, o l’incommensurabilità, fra i due universi: quello del potere simbolico, sacrificale, di chi sa e può crearsi le proprie vittime e trasformarle in oggetti viventi, in strumenti produttori di valore vendibile, e quello di chi cerca di salvarle, di innescare un percorso di liberazione.
Devo confessare, tra le cose che più mi hanno turbato in questi racconti, nei molti episodi di cui sono disseminate le pagine, non ci sono solo i rituali crudeli di sottomissione, il calvario delle deportazioni. Ci sono i referti e i responsi che si leggono nelle schede di valutazione che rilasciano i servizi di assistenza.
L’antropologa, certo, punta il dito, li mette in mostra e lamenta il proprio sconcerto. Soprattutto non può e non vuole identificarsi con queste imprese, con queste agenzie di liberazione. C’è una frase, forse sfuggita di bocca a chi la pronunciava, che rivela tutto: “Il prossimo… glielo prendiamo appena le esce dalla pancia”. Il “prossimo” è il bambino che nascerà e lei è la donna incinta, la madre “abbandonica” alla quale la società responsabile e provvida ha già deciso di sottrarre il figlio che lei non sarà in grado di allevare.
La salvezza, o meglio, il riscatto che può respingere il rischio di morte prolungata, o intermittente, che può aprire i varchi della libertà preclusa, la salvezza offerta dall’istituzione passa attraverso, a sua volta, un trapasso di negazione. Da vittima a prostituta, a madre abbandonica, a cattiva madre, ad anti-madre; una ragazza da liberare attraverserà i quattro gradi di una schedatura regressiva che le conferirà i diversi strati di una identità patologica. Il negativo vissuto nello stato di oggetto sacrificale sarà riconvertito nella negazione finale mediante la “salvezza” della maternità vietata.

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