Il limbo urbano

 24.00

Paolo Grassi

pp. 270
Anno 2024 (aprile)
ISBN 9788869482878

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Descrizione

Paolo Grassi
Il limbo urbano
Conflitti territoriali, violenza e gang a Città del Guatemala
Prefazione di Vanessa Maher

Questo libro racconta una città e la sua struttura spaziale condizionata dalla dimensione della violenza. La città in questione è la capitale del Guatemala, paese centroamericano la cui storia affonda le radici in un passato di divisioni etniche e sociali culminate in un conflitto armato interno, iniziato nel 1960 e terminato trentasei anni dopo. La violenza è quella delle mara, le gang centroamericane. O meglio, è quell’elemento sfaccettato le cui pratiche e i cui discorsi si sono coagulati negli ultimi anni intorno al fenomeno del banditismo giovanile. Le gang rappresentano, in questo lavoro giunto alla sua seconda edizione, un punto d’accesso per interpretare criticamente Città del Guatemala e, più in generale, per pensare alla “città segregata” fuori dagli stereotipi e da un punto di vista innovativo. Tra il 2008 e il 2013 l’autore vi ha trascorso più di un anno, compiendo una ricerca etnografica nelle sue periferie, in una prigione e in un quartiere residenziale di classe media. Il risultato finale suggerisce un’inversione logica: uno dei fenomeni sociali più sfruttati dall’opinione pubblica, dalla politica e dall’apparato punitivo statale per giustificare la segregazione urbana, qui è utilizzato per decostruirla e coglierne le complesse ragioni e implicazioni politiche.

“Questo lavoro, ben scritto e coinvolgente, offre al momento l’esplorazione più sofisticata e articolata sulle bande giovanili e l’insicurezza urbana in Guatemala e costituirà sicuramente un punto di riferimento fondamentale nella letteratura sulla violenza dell’America Centrale” (Dennis Rodgers, Geneva Graduate Institute).

Paolo Grassi, antropologo urbano, è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università di Milano Bicocca. Ha condotto ricerche in Repubblica Dominicana, Guatemala e Italia nel campo dell’antropologia urbana, concentrandosi sul rapporto tra spazio urbano e violenza, su gang e gruppi di strada, su processi di marginalizzazione socio-economica. Tra i suoi lavori: Barrio San Siro. Interpretare la violenza a Milano (Franco Angeli, 2022) e, per i nostri tipi (con Matteo Spertini e Christian Parolari), L’ Europa deporta. Richiedenti asilo nella rete del regolamento di Dublino (2016).

RASSEGNA STAMPA

2duerighe – 17 luglio 2024

Il limbo urbano a Città del Guatemala
di Valeria Todaro

“A Città del Guatemala le tienda (i negozi) hanno le grate. I negozi si affacciano sulle strade ma, nella maggior parte dei casi, non si entra. Ci si avvicina, si chiede di cosa si ha bisogno e si attende. Una fessura più larga permette di porgere i prodotti più voluminosi, altrimenti è sufficiente infilare tra le sbarre una mano”.

Note di questo genere, contenute nel saggio di Paolo Grassi- Il limbo urbano, edito da ombre corte -, aiutano a capire come la popolazione guatemalteca della capitale affronti il problema della criminalità. Nel suo scrivere la violenza, l’antropologo adopera la tecnica del racconto a strati, che alterna in maniera equilibrata dati statistici e riflessioni teoriche al più immediato strumento del diario di bordo, di cui il paragrafo precedente ne è un perfetto esempio. Le note di campo scritte durante la permanenza in Centro America aprono delle finestre sul panorama di Città del Guatemala, dove la criminalità ha raggiunto negli ultimi anni un tasso pericolosamente elevato.
La violenza non è mai qualcosa di isolato, ma sempre un prodotto di dinamiche storiche e strutturali. L’autore si pone fin da subito un obiettivo ben preciso: descrivere le lotte tra gang giovanili nelle zone periferiche della città evitando di cadere in facili stereotipi. Per farlo, risale al conflitto armato interno (durato ben 36 anni e conclusosi nel ’96, un conflitto che ha lasciato dietro di sé più di 200.000 desaparecidos). Tra le conseguenze della guerra civile c’è anche il processo di formazione degli asentamientos, quartieri periferici più poveri, abbandonati volutamente dalle istituzioni e dove la criminalità tra bande regna incontrollata.

Scopriamo così che la Pandilla 18 e la Mara Salvatrucha, le due principali gang guatemalteche rivali, arrivano in realtà dagli Stati Uniti. Trovano il loro fuoco originario nella violenza dei sobborghi di Los Angeles negli anni ’60 e ’80 e poi vengono rimpatriate dalla fine degli anni ’80 per mano del Servizio di Immigrazione statunitense. Grassi allaccia l’analisi storica anche ad una riflessione linguistica: parlare di mara, o di pandilla, equivale a non indicare mai un gruppo preciso. La pandilla è “molte sfere”, include il ragazzino di 13 anni che vive nel barrio e porta con sé una pistola e il pandillero di livello più alto che ha contatti con le mafie.

Per capire i motivi che spingono all’affiliazione alla pandilla evitando le generalizzazioni, le interviste raccolte dall’autore sul campo fanno da guida. Facciamo così la conoscenza di Teresa e Paulo, due ragazzi che si erano avvicinati ad una delle bande criminali perché ne subivano il fascino e compensava il loro desiderio giovanile di trasgressione. Diego e Alberto, invece, ex membri di due bande diverse, giustificano la violenza verso le gang rivali con la necessità di difesa del gruppo e del senso di appartenenza. Alle ragioni personali si aggiungono poi l’estrema povertà, la corruzione e l’isolamento dei quartieri di periferia da parte dello Stato.
Le strategie risolutive messe in atto dall’alto sono controproducenti. Le politiche di “Tolleranza zero” e le incarcerazioni massive da parte dei governanti non fanno altro che fomentare ondate di panico indirizzate per lo più contro minoranze. Il carcere diventa il luogo per eccellenza dove far “sparire” un ampio numero di disoccupati, non c’è rieducazione né riabilitazione; anzi, il carcere in epoca neoliberale “immobilizza strati di popolazione già marginalizzata”.
Dal barrio al carcere, Grassi ci conduce in un ultimo luogo esemplificativo e che è diventato negli ultimi anni parte del panorama urbano di Città del Guatemala, la gated community. La nascita di queste comunità fortificate nasce dalla paura prima delle élite urbane, poi anche della middle class. La creazione di abitazioni private recintate e protette da mura di cinta, filo spinato, telecamere a vista e guardie di sicurezza contribuisce a generare un’architettura “neomilitarista”, creando confini netti, disuguaglianze e separazioni tra classi sociali.
Dopo aver vissuto mesi dentro ad uno dei quartieri più pericolosi della Capitale, Grassi sviscera le dinamiche della violenza e risale alle cause reali del fenomeno: sono sempre gli interessi politici ed economici dello Stato a fomentare la paura verso le bande criminali, con conseguente ghettizzazione degli strati più poveri della popolazione guatemalteca. La “separazione sociale” va a braccetto con la costruzione di un apparato statale che si basa solo sulla logica della punizione e non ha nessuna intenzione di dialogare per trovare un punto di incontro. La periferia guatemalteca descritta da Grassi assume così le sembianze di un limbo, un luogo di confini incerti dove regnano insicurezza, violenza e povertà, uno strato da cui è difficile riemergere, dove a farne le conseguenze sono sempre le minoranze e i più giovani.

UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione – di Vanessa Maher

13 Ringraziamenti

17 Introduzione

1. Oggetto della ricerca; 2. Il metodo; 3. Struttura del testo; 4. Nota linguistica

33 Capitolo primo: Il campo

1. Il limbo territoriale; 2. Anatomia dell’insicurezza guatemalteca; 3. Sono i giovani a morire; 4. Mara e pandilla in Centro America; 5. Ecologia urbana neoliberale: barrio, carceri e quartieri residenziali; 6. Teorizzare la città

57 Capitolo secondo: Scrivere la violenza

1. Introduzione; 2. La riflessività etnografica in contesti pericolosi; 3. Continuum genocida e livelli d’esperienza; 4. Il “racconto a strati”; 5. Accedere al campo e posizionarsi; 6. Seguire la regola del barrio; 7. Conclusioni

77 Capitolo terzo: Storia e attualità di una Zona Rossa

1. Introduzione; 2. Dati e statistiche; 3. Migrare e occupare; 4. Il processo di formalizzazione dell’asentamiento; 5. Amnesie e memorie del conflitto armato interno; 6. La nascita delle mara; 7. Logiche simmetriche in risposta alla violenza

110 Capitolo quarto: Abajo vs Arriba: una guerra tra bande rivali

1. Introduzione; 2. Eventi critici; 3. Le “strategie belliche”; 4. Il Loco; 5. Pandilla, comunità e territorio; 6. Transnazionalismo e confini; 7. Definire la pandilla dal basso

139 Capitolo quinto: Diventare pandillero

1. Introduzione; 2. La clecha; 3. Teresa e Paulo: apprendere le regole della strada; 4. Machismo e differenze di genere; 5. Le cause dell’affiliazione e la Mano Amiga; 6. Fuori dalla banda
171 Capitolo sesto: Punire i poveri, criminalizzare i giovani

1. Introduzione; 2. Omologia strutturale tra barrio e carcere; 3. Arriba vs abajo: la divisione dello spazio carcerario e la sua rappresentazione; 4. L’arresto; 5. L’ingresso nella prigione e il rispetto delle gerarchie; 6. Organizzazione e regolamentazione del mondo del lavoro

205 Capitolo settimo: La rete fortificata

1. Lo sradicamento dell’elite urbana guatemalteca; 2. La colonia Maya iv: fondazione, accesso e distinzione; 3. Il processo di auto-segregazione; 4. Recupero del centro storico e altre politiche di privatizzazione dello spazio pubblico; 5. Spostarsi a Città del Guatemala: l’asimmetrica permeabilità dello spazio urbano; 6. Retoriche della paura adottate all’interno del barrio

236 Conclusioni

1. Ecologia sociale neoliberale; 2. xx; 3. La struttura del bando

249 Bibliografia


 

Prefazione
di Vanessa Maher

Il volume di Paolo Grassi, basato sulle sue ricerche etnografiche a Città del Guatemala, contribuisce alla configurazione di un nuovo orizzonte di studi, che mira a capire come la violenza venga a far parte della vita quotidiana in alcune città contemporanee. Il libro riporta molte notizie sulle bande giovanili urbane centroamericane, ma il suo scopo, come dichiara lo stesso autore, è piuttosto quello di delineare “un’ecologia sociale neoliberale della città”, caratterizzata da una “cultura del terrore”, un fiorente mercato della “sicurezza” e una struttura urbana segregata. In quest’ottica le bande o mara centroamericane esprimono una violenza che scaturisce da fattori geopolitici e locali che investono anche i soggetti istituzionali. In relazione a questi fattori la politologa Saskia Sassen considera, oltre alle organizzazioni criminali, l’azione delle ditte multinazionali. Secondo i suoi calcoli, sono circa 400.000 le multinazionali “legittime” che stipulano contratti con governi diversi, producendo uno spazio standardizzato internazionale, che è ottenuto usando “strumenti nazionali”, ma aggirando gli obblighi che lo stato ha nei confronti della sua popolazione. Sassen parla della decostruzione del particolare assemblaggio di territorio, autorità e diritti che ha caratterizzato lo stato-nazione, tale da produrre degli “structural holes” nel rapporto fra lo stato e il suo territorio.
Secondo Paolo Grassi, le mara sono una cartina di tornasole, non una causa di questa organizzazione o disorganizzazione politica che crea delle zone franche per il traffico di armi, narcotici e persone e per l’esercizio del potere attraverso la violenza, anche governativa. La prevenzione della violenza, secondo l’autore, deve passare per la modifica di fattori strutturali e non solo per la repressione o la rieducazione dei singoli delinquenti. Paolo Grassi non sottovaluta il ruolo dei mass media che prestano un linguaggio retorico alla “cultura del terrore” e alla stigmatizzazione dei settori più poveri della popolazione. Come l’autore dimostra nella sua analisi del talk of crime nel barrio, quartiere povero, la violenza è accompagnata da elementi interpretativi e di mitizzazione, anche da parte dei suoi protagonisti.
Le forme che prende la violenza sono peculiari alle situazioni locali e derivano da una storia specifica. La condizione dei giovani, che sono spesso in primo piano negli eventi violenti a Città del Guatemala, è anche un’eredità di esperienze precedenti di violenza, compresa l’espulsione di una vasta parte della popolazione indigena dalle loro terre durante la devastante guerra civile. La guerra finì formalmente nel 1996, ma i pandillero, membri delle bande giovanili, cresciuti negli asentamiento precario della città, non sono in grado di ricordare le ragioni del conflitto. Le loro azioni sono motivate nel presente, dalla paura, dalla vendetta, dall’interesse, da nozioni locali di onore e virilità. La loro violenza è “evento comunicativo orientato alla performance” quindi, un atto intriso di senso in un contesto politico che comprende tuttavia anche gli effetti di violenze subite e perpetrate nel passato. Per le bande guatemalteche guerra e pace non sono distinte ma intrecciate.
Dobbiamo cercare nella configurazione del potere economico e politico, sia nazionale che internazionale, le cause della condizione dei giovani e della violenza di cui sono allo stesso tempo protagonisti e vittime. Grassi descrive questa configurazione di poteri nel suo dispiegarsi empirico: le gerarchie all’interno delle bande e le rivalità fra bande, i conflitti e i rapporti viscosi fra forze dell’ordine, carcerati e residenti del barrio, fra amministratori e multinazionali e fra diversi segmenti della popolazione urbana. L’autore ritiene che le mara non costituiscano un movimento politico o di resistenza. Al contrario rifrangono la retorica, la ricerca del potere e i mezzi violenti delle forze conservatrici che le vogliono reprimere. I barrio poveri,“le zone rosse” dove risiedono i pandillero, mostrano le ferite più profonde delle loro rivalità e conflitti. Per una cultura di genere diffusa, sono i giovani maschi a essere maggiormente investiti dalla violenza, sia in quanto vittime, sia in quanto autori, ma i giovani pandillero rivolgono la loro ferocia anche contro i deboli, i bambini, le donne e gli anziani che incrociano il loro sentiero.
L’autore sceglie tre siti per mettere in risalto “l’ecologia sociale” della violenza e l’articolazione fra le sue diverse componenti anche urbanistiche: un barrio povero nella cosiddetta “zona rossa”, una gated community, area residenziale agiata, che alimenta un fiorente mercato di armi e di vigilanza, recintata contro un pericolo pensato come esterno; infine il carcere, che l’autore ritiene sia “l’altra faccia” del barrio. In effetti i detenuti nel carcere, come i giovani abitanti del barrio, risentono delle politiche di segregazione e privazione di diritti di alcune parti della popolazione da parte del governo. In queste condizioni, sono i capi delle mara a imporre in parte le loro gerarchie attraverso la violenza, a istaurare un rapporto viscoso con le istituzioni e a tessere le fila dei traffici di armi, narcotici e altre risorse.
Se la visione dell’autore, grazie alle sue coraggiose e intelligenti ricerche sul campo, penetra oltre lo stigma che vorrebbe incolpare i poveri dei propri mali, è anche grazie alla complessità e al rigore delle sue procedure di ricerca. Sono descritti efficacemente “dal basso” le pressioni e l’attrazione che le mara esercitano nei confronti dei giovani, anche preadolescenti, che si sentono “scartati” dal sistema politico vigente. All’osservazione partecipante nei tre contesti, alle molte conversazioni e interviste semi-strutturate raccolte presso residenti del barrio e della gated community, presso ex pandillero e detenuti, presso studiosi, giornalisti, operatori sociali e altre figure istituzionali, l’autore ha aggiunto i dati di indagini svolte nel corso delle proprie attività formative e teatrali. Lo studio, poi, abbina la ricerca qualitativa a un’analisi dettagliata dei dati quantitativi disponibili e in qualche caso creati dall’autore nel corso della ricerca. Paolo Grassi confronta continuamente e criticamente i dati etnografici con una vasta letteratura secondaria dedicata al fenomeno delle mara sia negli Stati Uniti, sia nei paesi centroamericani, dove questo si è diffuso negli anni Novanta in seguito al rimpatrio di migranti e detenuti in primo luogo dalla California. Secondo gli interlocutori dell’autore, le mara nella loro forma violenta e criminale si sono innestate in quegli anni sulle forme più innocue e meramente trasgressive della socialità giovanile di quartiere, facendosi veicolo e pretesto per l’esercizio di poteri nazionali e sovranazionali.
Per diverse ragioni la violenza sembra invadere sempre di più le nostre vite. Per alcuni questa sensazione è dovuta alla diffusione attraverso i mass media di immagini di guerre lontane o alla rappresentazione di situazioni violente in film e videogiochi. Per altri la violenza è cresciuta realmente nell’ultimo secolo a causa di cambiamenti nelle condizioni globali, come la produzione e il commercio massiccio di armamenti e l’implosione politica degli stati. Le forme crudeli che prende questa violenza sono diverse e spesso risultano incomprensibili. Qualche volta sono attribuite frettolosamente a una “Nuova Barbarie”. Ma nessuno può ignorare il fatto che la nostra vita quotidiana è venata da diversi tipi di violenza, come la violenza domestica o il bullismo, che esistono da molto tempo e che nel passato venivano largamente tollerate o legittimate.
Fino a tempi recenti le scienze sociali, compresa l’antropologia, non avevano strumenti per la comprensione o l’interpretazione della violenza, che consideravano un fattore di disturbo del normale funzionamento della società. Sgomenti davanti ai genocidi europei e coloniali del Novecento, gli scienziati sociali nel secondo dopoguerra hanno proposto modelli per lo studio delle società in tempi di “normalità e pace”, come se la violenza fosse un elemento estraneo che veniva a disturbare l’equilibro ordinario delle cose. Per il superamento di questa prospettiva funzionalista abbiamo dovuto aspettare gli anni Sessanta e i lavori della Scuola di Manchester sull’ Africa Centrale, che mettevano a fuoco il conflitto e l’instabilità intrinseca delle società umane, ma anche i mezzi rituali e politici per il contenimento della violenza. Negli anni Settanta ci fu un ripensamento etico e teorico dell’antropologia di fronte alla violenza delle guerre di decolonizzazione e del Vietnam. Ciononostante, sembrava che gli strumenti “interpretativi” dell’antropologia degli ultimi decenni avessero subito una sorta di scacco di fronte alla violenza sociale che percepivano come caos, vuoto di senso. Sul campo, come poteva l’antropologo posizionarsi rispetto ai suoi interlocutori, quando questi si trovavano in situazioni violente quali guerre regionali, conflitti motivati da ideologie etniche e religiose, il coinvolgimento nei traffici illegali per l’accaparramento di risorse naturali? Un capitolo del libro di Grassi affronta i dilemmi etici e metodologici posti dalla ricerca in “luoghi pericolosi” e il compito dell’antropologo di “scrivere la violenza” senza giustificarla.
Il dibattito in Italia sulle bande giovanili, di cui quelle legate alla mafia e alla camorra potrebbero essere il prototipo nostrano, è appena abbozzato. Esistono studi su bande di giovani centroamericani a Genova e Milano, oggetto di un “panico”sociale immotivato, ritengono gli autori; ma i fenomeni che li collegano alle ricerche di Paolo Grassi sono simili solo in apparenza. Le ricerche ecologiche di Paolo Grassi offrono un approccio originale che parte dal contesto politico e urbanistico e ci cautela contro il rischio di assimilare tutte le bande in modo superficiale, come se fossero esempi di uno stesso fenomeno. In questo senso il suo approccio può dare un contributo anche alla comprensione del coinvolgimento dei giovani nella criminalità organizzata. Paolo Grassi ci consegna un’etnografia in cui i soggetti (i detenuti, le mara, i residenti del barrio, le istituzioni pubbliche, i residenti della gated community) non si affrontano in una serie di relazioni simmetriche o antagonistiche. Piuttosto fanno parte di un sistema interconnesso di relazioni nazionali e internazionali che il suo libro ci aiuta a mettere a fuoco.