Hegel e Haiti

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Susan Buck-Morss

pp. 86
Anno 2023 (maggio)
ISBN 9788869482663

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Descrizione

Susan Buck-Morss
Hegel e Haiti
Schiavi, filosofi e piantagioni
Traduzione dall’inglese di Francesco Francis

Questo breve saggio si interroga sulla paradossale coesistenza degli ideali dell’Illuminismo nel Settecento con una pratica della schiavitù che non è mai stata concretamente messa in discussione: la libertà, proclamata con forza in Europa era calpestata nelle colonie, dove l’economia si reggeva sul sistema schiavistico. In questo contesto, quando Hegel elabora la dialettica servo-padrone, mostra una cecità tipica dell’epoca o si tratta, al contrario, di un tentativo di denuncia di questo stato di cose? In una successione di punti, e dopo una breve digressione sul contesto storico e filosofico, Susan Buck-Morss avanza l’ipotesi secondo cui Hegel è riuscito a spostare un discorso filosofico, astratto, verso una opposizione dialettica ispirata e inscritta nella realtà. Secondo l’autrice, Hegel ha davvero portato la filosofia della libertà fuori dalla sfera teorica; ha reso il razionale reale. Se il suo periodo berlinese lo riportò verso un conservatorismo che successivamente ha potuto giustificare molte teorie eurocentriche, e nonostante un razzismo culturale permanente, Hegel sembra non di meno aver avuto un momento di lucidità di cui qui Buck-Morss sottolinea la portata nell’elaborazione di un progetto di libertà universale.

Susan Buck-Morss è Professoressa di Filosofia Politica e Teoria Sociale presso il Department of Government della Cornell University, e membro dei corsi di laurea in Germanistica e Storia dell’Arte. Tra i suoi diversi lavori: The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades (1991); Thinking Past Terror: Islamism and Critical Theory on the Left (2006); Hegel, Haiti, and Universal History (2009); Revolution Today (2019).

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

1.

Fin dall’inizio del xviii secolo, la schiavitù si era affermata come metafora fondante della filosofia politica occidentale, con­notando tutto ciò che vi era di male nei rapporti di potere. La libertà, sua antitesi concettuale, era vista dai pensatori dell’Illuminismo come il valore politico più alto e universale. Eppure questa metafora politica cominciò a radicarsi proprio nel momento in cui la pratica economica dello schiavismo – la sistematica e accuratamente programmata riduzio­ne in schiavitù di non-europei da utilizzare come forza-lavoro nelle colonie – cresceva quantitativamente e si intensificava qualitativamente, tanto che alla metà del xviii secolo era arrivata a finanziare l’intero sistema economico dell’Occidente, facilitando paradossal­mente la diffusione globale di quegli stessi ideali illuministici così antitetici a esso.

Questa vistosa discrepanza tra pensiero e pratica caratterizzò il periodo di trasformazione del capitalismo globale dalla forma mercantile a quella protoindustriale. Si sarebbe indotti a credere che nessun pensatore “illuminato” avrebbe potuto non accor­gersene. Ma così non fu. Lo sfruttamento di milioni di lavoratori, utilizzati come schiavi nelle colonie, veniva accettato quale parte di un mondo dato per scontato dagli stessi pensatori che proclamavano la libertà quale condizione naturale e diritto inalienabile dell’uomo. Anche quando, sulla scena politica, le rivendicazioni astratte della libertà si trasformarono in azione rivoluzionaria, l’economia coloniale basata sullo schiavismo riuscì, mantenendosi nella penombra, a restare attiva.

Se questo paradosso non sembrò turbare la coscienza logica dei contemporanei, forse più sorprendente è che anche gli scrittori di oggi, pur essendo perfettamente a conoscenza dei fatti, possano ancora rappresentare la storia dell’Occidente come una progressione lineare nel cammino verso la libertà dell’uomo. Le ragioni di ciò non sono necessariamente intenzionali. Quando le storie nazionali vengono trattate separatamente, o quando i vari aspetti della storia sono studiati nel contesto di discipline che si muovono in modo isolato, ogni prova che vada in un’altra direzione viene scartata come irrilevante. Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani, o per nuovi campi di indagine come gli studi sulla diaspora, nati proprio per ovviare a questo stato di cose. I confini disciplinari consentono di considerare ogni fatto discordante come se appartenesse alla sfera di indagine di qualcun altro. Dopo tutto, uno studioso non può essere esperto in tutti i campi. E questo è abbastanza ragionevole. Ma simili argomentazioni servono a evitare una verità scomoda: se certe costellazioni di fatti riescono a insinuarsi sufficientemente a fondo nella coscienza degli studiosi, finiscono per minacciare non solo le più venerande interpretazioni, ma anche le discipline accademiche che, chiuse a riccio sulle proprie posizioni, le (ri)producono. Non c’è ad esempio un solo ambito accademico nel quale una costellazione di ricerche come “Hegel e Haiti” sia riuscita a ottenere cittadinanza. Questo è l’argomento che mi appresto a trattare e per arrivarci seguirò una strada tortuosa. Me ne scuso, ma questa apparente deviazione è in realtà il vero soggetto della discussione.