Fuorigioco

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Giuseppe Grimaldi

pp. 183
Anno 2022 (giugno)
ISBN 9788869482243

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Descrizione

Giuseppe Grimaldi
Fuorigioco. Figli di migranti e italianità. Un’etnografia tra Milano, Addis Abeba e Londra
Prefazione di Gennaro Avallone

”Nel calcio, quando viene rilevato un fuorigioco, si è sottoposti a sanzioni. Ma la metafora calcistica è quantomai utile se applicata a figli di migranti messi continuamente altrove, trasferiti in un’area di nessuno, epurati dalle appartenenze che pure hanno.
Giuseppe Grimaldi costruisce un’indagine etnografica che parte proprio dalle parole e dai comportamenti quotidiani e che, oltre al non detto, mostra le regole sociali e giuridiche vigenti, fino a introdurci a quell’armamentario simbolico a cui queste persone sono “costrette” per declinare le loro vite.
Si tratta infatti di una condizione che viene loro imposta, in modo da metterli e tenerli fuorigioco, fuoriposto, fuoriluogo. Solo che tutto questo innesca anche un gioco sociale, una pratica delle rappresentazioni, un sistema performativo in cui sono proprio le cosiddette “seconde generazioni” a ritagliarsi uno spazio, un ruolo e una collocazione sociale ben precisa. E per raccontarlo si inseguono qui biografie e carriere, genealogie e generazioni, si confrontano procedure materiali e elaborazioni rituali di giovani italiani di origine etiope ed eritrea, spostandosi dai paesi di origine dei genitori (Addis Abeba) allo spazio di transito milanese di Porta Venezia lungo la rotta mediterranea fino a Londra. Tanti i fantasmi che vengono evocati: dal colonialismo rimosso all’attuale black mediterranean… Ed è proprio tra quel passato che gli italiani non hanno digerito e gli orrori del presente che la folla di attori che riempiono le pagine di questo libro riescono ad essere riconosciuti per ciò che sono, italiani“ (Stefano De Matteis).

Giuseppe Grimaldi è dottore di ricerca in antropologia (Università di Milano Bicocca) e
collabora con università e centri di ricerca in Italia e all’estero. Insegna all’Università di Trieste e di Roma tre. È membro fondatore dell’associazione “Frontiera Sud Aps”, un progetto di ricerca-intervento che si occupa del nesso tra migrazioni e località nel mezzogiorno italiano.

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione
di Gennaro Avallone

11 Prologo. Italianità e fuorigioco

15 Introduzione

1. Alla festa dei rifugiati; 2. Italiani differenziali: se essere “seconde generazioni” è una condizione sociale; 3. Italianità in movimento. Una prospettiva della mobilità sulla “condizione di seconda generazione”; 4. Il Mediterraneo a Milano: Porta Venezia e l’italianità nel Black Mediterranean; 5. Questioni di posizionamento. A sostegno della riforma della cittadinanza (anche se non basta)

39 Premessa. Il Tigray e l’altro lato del Mediterraneo

43 Capitolo primo. “Da dove vieni veramente?”. La condizione di seconda generazione

1. Da cosa è composto il “noi”? Tra colonialismo e riforma della cittadinanza; 2. Integrazione all’italiana: la sovrapposizione delle migrazioni; 3. Alterizzare, separare, escludere. Condizione di seconda generazione: lato A; 4. Mettersi al centro, diventare Habesha: La condizione di seconda generazione lato B; 5. Habesha: nominare la condizione di seconda generazione; 6. Da dove veniamo veramente

71 Capitolo secondo. “Tornatene a casa tua”. La condizione di seconda generazione e il contesto di origine ancestrale

1. Si fa presto a dire “torna a casa”: la differenza come risorsa per la mobilità contro-diasporica; 2. Italianità contro-diasporica: navigare la condizione di seconda generazione; 3. Italianità differenziale in Etiopia; 4. A casa, fuori luogo

106 Capitolo terzo. “Né di qui né di lì”. La condizione di seconda generazione a Londra e il “terzo spazio”

1. Una mobilità italiana? Si ma…; 2. Una mobilità Habesha? Si ma…; 3. La condizione di seconda generazione a Londra; 4. Nuove italianità e Brexit

131 Capitolo quarto. “Non saranno mai italiani”. La condizione di seconda generazione nel Mediterraneo Nero

1. Rompere il termometro dell’italianità; 2. La crisi dei rifugiati come dramma sociale: italianità liminali a Porta Venezia; 3. Il Mediterraneo Nero arriva a Porta Venezia

164 Conclusioni: L’italianità e le sue ostinate sorti et progressive

169 Ringraziamenti

171 Bibliografia


 

Prefazione
di Gennaro Avallone

La ricerca sociale è utile per proporre nuova conoscenza, ma anche per seminare dubbi e fare emergere domande inedite, anche in ambito personale. È questo ciò che è accaduto a Giuseppe Grimaldi con la lunga esperienza etnografica che ha vissuto tra Milano, Londra e Addis Abeba con rappresentanti della diaspora eritrea ed etiope e con ragazzi e ragazze figli di eritrei ed etiopi. È lo stesso autore del libro che presenta i risultati della ricerca condotta a riconoscere i vincoli della sua soggettività, oggettivamente caratterizzata dalla condizione di privilegio bianco, di cui qualunque europeo di classe media o alta è portatore, indipendentemente dalla propria volontà, quando si ritrova in Africa o tra africani. Il riconoscimento del privilegio, reso esplicito in molteplici situazioni di vita quotidiana, ha favorito una presa di posizione nei riguardi sia del metodo di ricerca (l’etnografia multisituata) sia del suo obiettivo principale (guardare l’italianità tanto nel suo farsi, oltre il nesso essenzialista identità-sangue-territorio a cui la riduce il discorso pubblico e istituzionale, quanto nei suoi effetti gerarchizzanti ed escludenti).
Guardare all’italianità da questa prospettiva significa interrogarsi su cosa voglia dire “noi”, su come esso si costituisce, sulle modalità secondo cui cambia, sulle spinte che si attivano per modificarlo in quanto dato storico o per conservarlo come se fosse un dato di natura. Assumere questo sguardo, specialmente in dialogo con la condizione di chi ha genitori o nonni nati in Etiopia ed Eritrea, impone anche di confrontarsi con elementi strutturalmente rimossi dalla definizione ufficiale di italianità, sia quelli del colonialismo storico sia quelli delle politiche migratorie assunte negli ultimi trenta anni, che hanno dimostrato quanto sia infondata l’espressione “italiani, brava gente”. Se il discorso istituzionale esalta, in violazione di qualunque evidenza storica, il buon cuore degli italiani addirittura anche durante l’impresa coloniale, fatta in nome di una presunta amicizia verso le popolazioni occupate e, quindi, con scarso ricorso alla violenza, esso è ancora più a suo agio quando si esprime sulle politiche migratorie. In questo caso, il discorso è tutto concentrato sull’impegno a salvare le vite in mare, omettendo, ad esempio, l’affondamento della nave Katër i Radës da parte di una corvetta dalla Marina Militare nel 1997 con la morte di 81 persone a cui aggiungere 27 dispersi i cui corpi non sono mai stati ritrovati, la condanna dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo per respingimenti collettivi con la sentenza Hirsi nel 2012, la firma di accordi con la Libia prima nel 2009 e poi nel 2017 per trattenere i migranti nonostante la conoscenza delle violenze a cui una parte di essi veniva, e viene, costretta nei centri di detenzione di quel paese.
L’osservazione dell’italianità dall’interno di una ricerca etnografica con persone che provengono da famiglie etiopi ed eritree ha richiesto anche una critica delle categorie con cui vengono generalmente definite le figlie e i figli degli immigrati. A prevalere è, da circa tre decenni, il concetto di seconde generazioni, al quale, in maniera meno diffusa in Italia, viene preferito a volte quello di persone con background migratorio. Come aveva già scelto di fare Abdelmalek Sayad, Giuseppe Grimaldi usa, invece, il concetto di figli di migranti, in modo da evidenziare che essi non sono stranieri dal punto di vista culturale, in quanto nati e cresciuti in Italia, e, quindi, formati dalla lingua, dalla scuola e da tutti gli altri processi sociali. E proprio per questo, in quanto nazionali figli di stranieri, Sayad scrive che, dal punto di vista del pensiero di stato, essi sono soggetti poco chiari, equivoci, problematici, che mettono in discussione, con la loro esistenza, le separazioni gerarchiche naturalizzate e rassicuranti tra nazionali e immigrati. Specificamente, “ciò che si perdona di meno a questa categoria di immigrati è proprio il fatto di attentare alla funzione e al significato diacritici della separazione, stabilita dal pensiero di stato, tra nazionali e non-nazionali” (Sayad 2002, p. 382). La categoria di seconde generazioni ristabilisce questa funzione, rimanda i figli e le figlie delle persone immigrate alla stessa condizione di immigrato, dunque di soggetto non pienamente appartenente all’ordine nazionale, figura provvisoria che prima o poi tornerà al suo paese. Dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che il loro paese – la loro casa – è qui, in Italia.
In maniera molto opportuna sia sul piano epistemologico che metodologico, la ricerca presentata destruttura l’etichetta di seconde generazioni e si chiede quali meccanismi e condizioni sociali e simboliche ne producano e riproducano acriticamente l’utilizzo. Tra questi meccanismi vi è quello dell’immigrazione come colpa in sé, come colpa genetica, la quale non può fare altro che riprodurre i suoi effetti negativi, le sue infrazioni dell’ordine nazionale ma anche dell’ordine sociale. Da qui, dal carattere necessariamente torbido dell’immigrazione, si dispiegano le angosce che nel tempo si sono manifestate nella città di Milano anche a causa della presenza di figli di persone etiopi ed eritree, associati a una serie di parole della devianza e dell’allarme sociale: giovani, periferie, quartieri popolari, droga, spaccio, disoccupazione, delinquenza, stranieri, immigrati.
È da questo insieme di colpe, e accuse sottintese o esplicite, che i figli e le figlie di immigrati devono liberarsi per collocarsi in maniera non predestinata, dunque inferiore o, addirittura, criminalizzata, nella società italiana. Le strade che essi ed esse intraprendono per farlo sono molteplici e tra queste vi è anche l’uscita, temporanea o definitiva, dal paese di nascita per recarsi altrove, a volte nel paese dei genitori o nonni, altre volte in paesi economicamente più forti come la Gran Bretagna, anche sulla scia di altri membri della diaspora eritrea ed etiope.
Giuseppe Grimaldi ha seguito una parte di questi percorsi, anche in modo da capire quali funzioni vi svolgesse l’italianità e secondo quali modalità essa venisse ridefinita dall’esterno. Vi ha ritrovato, sicuramente, un bisogno di affermazione e liberazione dalla subalternità vissuta nel paese natio. Non ha trovato, invece, rifiuti né, tantomeno, rifugi identitari. Le persone che ha incontrato nella sua ricerca non si sono costruite per negazioni o sostituzioni di appartenenze culturali, ma attraverso traduzioni, l’assunzione di nuovi punti di vista, le comparazioni tra luoghi, pratiche socioculturali e contesti.
Questi figli di immigrati non vivono lacerazioni, ma conflitti e forme di esodo attraverso la mobilità spaziale gestita come risorsa, come capitale sociale e simbolico. Essi ed esse sono italiani, non sono meticci o esterni alla società e cultura italiana, anche se questa condizione viene negata sia in ambito istituzionale, con una legge sulla cittadinanza che lascia i minorenni fuori dall’appartenenza nazionale formale, sia nello spazio pubblico, attraverso un ordine del discorso che ne disconosce, o ne rende parziale, la presenza. Al contrario, è anche questa presenza a ridefinire i contenuti della italianità e, proprio per questo, essa trova tanta ostilità nella sfera pubblica così come nell’azione politico-istituzionale. I figli e le figlie delle persone immigrate in Italia stanno ridefinendo, oggettivamente ma anche soggettivamente, i caratteri dell’identità nazionale, stanno contribuendo a cambiare le risposte alla domanda “cosa vuol dire essere italiano o italiana?”. Lo fanno dai margini, come direbbe bell hooks, ossia da una presenza sociale che è un atto di rottura e, al tempo stesso, di affermazione, che fa ricorso anche alla memoria, ad esempio contro l’oblio della violenza coloniale subita dai loro antenati o da chi giunge in Europa attraverso le vie ostili delle migrazioni e fughe contemporanee.
Secondo l’osservazione etnografica riportata in questo libro, questa ridefinizione sta avvenendo anche nel confronto con le migrazioni verso l’Europa degli ultimi due decenni e con le politiche migratorie italiane ed europee. L’italianità si sta riscrivendo nel contesto emergente del Mediterraneo nero, caratterizzato dalla messa in discussione di qualunque approccio vittimista o umanitario nei riguardi delle migrazioni, dunque anche dalla critica dello sguardo dell’innocenza bianca che continua a riprodurre le persone migranti, specialmente quelle che arrivano attraverso i viaggi nel mare a cui le politiche migratorie europee contribuiscono a costringerle, come vittime da aiutare o risorse economiche e demografiche da valorizzare. Quello che si afferma è un rapporto di non estraneità con le migrazioni contemporanee, proponendo, come nell’esperienza di Porta Venezia a Milano vissuta dai giovani italiani di famiglia eritrea o etiope con le persone che vi giungevano dagli sbarchi tra il 2013 e i primi mesi del 2015, un modo di stare con chi immigra o transita non fondato sulla separazione noi-loro. Questa stessa proposta si ritrova nel movimento per la riforma della cittadinanza, la quale potrebbe costituire un momento istituzionale per riconoscere, almeno in parte, i limiti della definizione di italianità e aggiornarla in una direzione democratica e non-razzista, in modo da renderla maggiormente coerente con la reale composizione storica della società e dell’identità nazionale italiana.