Fortune del femminismo

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Nancy Fraser

pp. 284
Anno 2014
ISBN 9788897522812

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Descrizione

Nancy Fraser
Fortune del femminismo.
Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista
Traduzione di Anna Curcio

In questo suo nuovo lavoro Nancy Fraser ripercorre l’evoluzione del movimento femminista a partire dagli anni Settanta e anticipa una nuova fase, radicale ed egualitaria, del pensiero e dell’azione femminista. Negli anni in cui la Nuova Sinistra era in fermento, la “seconda ondata” femminista emerse come una lotta per la liberazione della donna, ponendosi accanto ad altri movimenti radicali che mettevano in discussione le caratteristiche fondamentali della società capitalistica. Ma il successivo immergersi del femminismo in una politica identitaria coincise con il declino delle sue energie utopiche e con l’ascesa del neoliberismo. Ora, prevedendo una ripresa del movimento, Fraser sostiene la necessità di un radicalismo femminista rinvigorito, in grado di affrontare la crisi economica globale. Il femminismo può essere una forza che lavora in accordo con altri movimenti egualitari nella lotta per portare l’economia sotto il controllo democratico, nel mentre rielabora il potenziale visionario delle precedenti ondate del movimento di liberazione delle donne. Questa nuova indagine è destinata a diventare un punto di riferimento del pensiero femminista.

Nancy Fraser è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York, Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra “Giustizia globale” al Collège d’études mondiales di Parigi. Tra i suoi lavori: La giustizia incompiuta (2011); Il danno e la beffa (2012); La bilancia della giustizia (2012); con Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? (2007).

RASSEGNA STAMPA

Milva Pistoni in DWF (107) Ancora sorelle?, 2015, 3

Il volume è composto da una raccolta di saggi dell’autrice – docente di filosofia e politica alla News School for Social Research di New York – che copre un quarto di secolo, dal 1985 al 2010, e poco oltre. Nel prologo, che si apre all’insegna della triade, Fraser introduce quelli che chiama i tre atti dell’opera femminista della seconda generazione, a partire dagli anni Settanta ad oggi, così come li interpreta e cioè: un primo atto in cui il movimento di liberazione delle donne afferma che “il personale è politico” e unendosi ad altre correnti radicali disvela l’androcentrismo del capitale e demolisce l’immaginario socialdemocratico che occulta sotto strati di perbenismo borghese familista l’ingiustizia di genere; un secondo atto in cui gli impulsi trasformativi vengono incanalati “in un nuovo immaginario politico cha ha posto in primo piano la ‘differenza’” spostando la rivendicazione “dalla redistribuzione al riconoscimento” e concentrando le forze nella politica culturale proprio mentre (ahimè, la sfiga non ha regole precise) “il nascente neoliberismo dichiarava guerra alla parità sociale”; e infine un terzo atto, in corso (o atteso) in cui agisce un femminismo “rinvigorito, che si unisce ad altre forze per l’emancipazione, le quali puntano a sottoporre i mercati in fuga al controllo democratico”.
Ai tre atti dell’opera femminista corrispondono le tre parti in cui è suddiviso il volume.
Il fulcro intorno a cui si muovono i quattro saggi della prima parte è la critica al welfare state familista centrato sul capofamiglia (bianco) lavoratore. E’ la parte probabilmente più interessante del volume perché i temi e le questioni affrontate, ancorché datate rispetto alla riflessione dei femminismi a livello internazionale, sono ancora attuali, in quanto irrisolti, poco compresi o semplicemente dimenticati, nel dibattito politico nazionale italiano. Senza entrare nel vivo dei quattro saggi in questione (che, ripeto, vale la pena di leggere, o rileggere, anche solo per rinfrescarsi la memoria) a volo d’uccello nomino semplicemente alcuni dei concetti, temi e discorsi toccati: analisi e critica al concetto di “lavoro sociale” di Habermas, che include il lavoro non retribuito delle donne per la cura dei figli nella riproduzione simbolica (e non in quella materiale); il legame tra il “lavoro salariato” imposto dal capitale e la famiglia mononucleare con capofamiglia maschio; la dominazione maschile non è accidentale ma intrinseca al capitalismo perché la struttura istituzionale di questa formazione sociale si realizza attraverso ruoli di genere; la rilevanza politica della violenza domestica; il paternalismo che appare quando le rivendicazioni dei bisogni si separano dalle rivendicazioni dei diritti; l’invenzione della casalinga; la “dipendenza dal welfare”; il “salario familiare” e la giustizia di genere.
Nella seconda parte (dal titolo: Il femminismo addomesticato: dalla redistribuzione al riconoscimento nell’epoca dell’identità) i temi della rivendicazione identitaria e il riconoscimento vengono trattati come il momento del negativo e, aggiungo, come una inspiegabile svista, un errare, l’andare per farfalle. La terza parte, infine, analizza possibilità e prospettive di ripresa del femminismo radicale una volta rimboccata la retta via (Femminismo risorgente? Affrontare la crisi del capitalismo nell’era neoliberista).
I saggi che compongono la seconda e terza parte del volume, seppur singolarmente interessanti, non necessariamente ci riconducono al percorso tracciato da Fraser nel prologo, aprono, al contrario a mio avviso, molti più interrogativi e occasioni di riflessione rispetto a quanto l’autrice a posteriori, e con un tocco esteriore, senza tempo, o forse semplicemente senza corpo, ci propone.
Nomino semplicemente alcuni temi: visione bidimensionale del concetto di genere (come classe e come status); la giustizia di genere come parità partecipativa; nessuna redistribuzione senza riconoscimento/nessun riconoscimento senza redistribuzione; le tre dimensioni della giustizia sociale: politica (rappresentanza), economica (redistribuzione), culturale (riconoscimento).
Concludo: il volume è uno strumento utile a patto di non fidarsi della speranza di Fraser;
“sviluppare nuove strategie concettuali e pratiche per combattere contemporaneamente le ingiustizie di genere nell’economia e nella cultura” oppure “mappare la grammatica delle lotte sociali che stanno rispondendo alla crisi e rimodellare il terreno politico su cui opera il femminismo” non sono necessariamente né un imperativo né il destino del femminismo attuale.
La triade spesso inganna, come anche il capitale. Il ruolo del negativo che Fraser attribuisce alle istanze femministe di riconoscimento appare come frutto di un giudizio di valore che non include in sé la storia, il processo, l’errare come momento di ricerca che porta frutti che vanno assaggiati, assimilati, prima di capire se faranno bene o male alla nostra salute. Appare, questo ruolo, affidato per poter contare su di un utile gradino da salire per indicare la verità e la via, cioè quella del recupero di un simbolico e un immaginario che non ha, purtroppo, nessun reale con cui danzare. L’impressione è che manchi, a partire dal primo atto, la consapevolezza che noi siamo dentro una organizzazione sociale che obbedisce al capitale, che obbediamo al capitale anche quando pensiamo di creare strumenti concettuali per combatterlo, e che siamo sempre sussunte, volenti o nolenti, dal mercato e dal profitto. Manca il corpo, il sentire che trasformare e interpretare hanno origine, ed esito, diverso, e spesso viaggiano su strade che non necessariamente si riconoscono quando si incrociano.
Il terzo atto dell’opera femminista, catartico o sintetico (preferite la tragedia o la scienza della logica?) vagheggiato da Fraser è un momento fuori dal tempo in cui le intuizioni iniziali, insurrezionali – preso atto del momento erratico identitario – si ricompongono in un movimento radicale che contiene in sé la critica di genere alla dominazione maschile e nel contempo stabilisce, fonda, la giustizia redistributiva di genere. Ci manca solo il deus ex machina (e poi le fate che spazzano il palco). Oltrepassato il momento consolatorio dell’attesa che accada per miracolo ciò che desideriamo, alcuni dei saggi proposti da Fraser potrebbero essere utili – ora a noi in Italia – per suscitare un dibattito sulla giustizia sociale che si muova con lucidità rispetto all’attuale ulteriore trasformazione neoliberista dell’organizzazione sociale del lavoro in cui non solo il reddito ma anche il lavoro stesso non è più considerato come un diritto ma come un’elargizione caritatevole a cui si accede tramite la bontà, o peggio, il merito.

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“Connessioni precarie”
L’inquietante uguaglianza della differenza: Nancy Fraser e le fortune del femminismo
di Paola Rudan
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UN ASSAGGIO

Prologo a un’opera in tre atti

Osservandola dal presente, la storia della seconda generazione del femminismo appare come un’opera in tre atti. Il “movimento di liberazione delle donne”, nato dal fermento che circondava la nuova sinistra, è venuto alla luce come una forza insurrezionale che ha affrontato la dominazione maschile nelle società postbelliche caratterizzate da un ca- pitalismo in cui lo Stato svolgeva un ruolo attivo. Nel primo atto, le femministe si sono unite ad altre correnti del radicalismo per demolire l’immaginario socialdemocratico che aveva occultato l’ingiustizia di genere e tecnicizzato la politica. Il movimento, insistendo sul fatto che “il personale è politico”, ha mostrato il profondo androcentrismo del capitale, provando a trasformare la società nel suo insieme. Più tardi, però, con il progressivo venir meno delle spinte utopiche, la seconda generazione del femminismo è stata ricondotta nell’orbita della politica dell’identità. Nel secondo atto, i suoi impulsi trasformativi sono stati incanalati in un nuovo immaginario politico che ha posto in primo piano la “differenza”. Muovendo “dalla redistribuzione al riconoscimento”, il movimento ha spostato la sua attenzione sulla politica culturale, proprio mentre il nascente neoliberismo dichiarava guerra alla parità sociale. Tuttavia, nell’attuale crisi del neoliberismo, la voglia di reinventare un radicalismo femminista può tornare a rivivere. Nel terzo atto, quello ancora in corso, si può vedere un femminismo rinvigorito, che si unisce ad altre forze per l’emancipazione, le quali puntano a sottoporre i mercati in fuga al con- trollo democratico. In questo caso, il movimento potrebbe recuperare il proprio spirito insurrezionale e approfondire le sue intuizioni iniziali: la critica strutturale all’androcentrismo capitalista, l’analisi sistemica della dominazione maschile e la rilettura di genere di democrazia e giustizia.
Gli storici dovranno così spiegare come le forze del neoliberismo siano riuscite, per un momento almeno, a disinnescare le correnti più radicali della seconda generazione del femminismo e come (si spera) una nuova ondata insurrezionale sia riuscita a rianimarle. Per i teorici critici, tuttavia, vi è un compito prioritario: analizzare le grammatiche alternative dell’immaginario femminista, al fine di valutarne il potenziale emancipativo. Si tratta di verificare quale idea di androcentrismo, quale interpretazione della dominazione maschile e quale concezione di giustizia di genere possono essere più fruttuose per gli impegni futuri. E soprattutto, quali modalità della teorizzazione femminista dovrebbero essere inserite negli immaginari politici che le nuove generazioni stanno inventando per questo terzo atto.

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