Farsi la galera

 19.00

a cura di Elton Kalica e Simone Santorso

pp. 1212
Anno 2018
ISBN 9788869480928

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Descrizione

Farsi la galera
Spazi e culture del penitenziario
a cura di Elton Kalica, Simone Santorso

Frutto di un percorso di ricerca etnografica all’interno degli istituti di pena di cinque regioni del centro-nord d’Italia, il volume costituisce il primo esempio contemporaneo di una convict criminology italiana: i racconti e i diari di Elton Kalica sulla sua detenzione hanno costituito il perno attorno al quale si è sviluppato il lavoro di ricerca. La narrazione è costruita attraverso l’incrocio di sguardi e prospettive riferibili al detenuto, all’operatore penitenziario e al ricercatore, offrendo visioni differenziate sul carcere in Italia. Il testo è organizzato in sei aree tematiche (quotidianità, disciplina, lavoro, istruzione, salute e contatti con l’esterno) che accompagnano il lettore attraverso gli spazi e le culture che costituiscono la realtà carceraria. L’obiettivo è quello di offrire uno spaccato delle contraddizioni e delle incongruenze che caratterizzano la pena detentiva, permettendo a chi legge di comprendere in maniera approfondita l’articolazione degli spazi carcerari e la molteplicità delle culture detentive. Il libro si rivolge a studiosi e accademici che lavorano su questi temi, ma vuole essere anche uno strumento utile per operatori carcerari e politici che a vario titolo si occupano di pena e carcere.

Gli autori: Elton Kalica, Alessandro Maculan, Simone Santorso, Alvise Sbraccia, Francesca Vianello

Elton Kalica è Dottore di ricerca in Scienze Sociali: Interazioni, Comunicazione, Costru- zioni Culturali. Membro dell’Osservatorio regionale (Triveneto) di Antigone sulle condi- zioni di detenzione e del Comitato redazionale della rivista “Ristretti Orizzonti”.
Simone Santorso è Lecturer in Criminology presso University of Hull (UK) è membro dell’Osservatorio Nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione.

Rassegna stampa

Studi sulla questione criminale – 6 settembre 2018

Recensione di “Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario”, a cura di Elton Kalica e Simone Santorso, di Valerio Pascali (Università degli studi di Padova)

Pubblichiamo la recensione di Valerio Pascali (Università degli studi di Padova) al libro recentemente edito per Ombre Corte (2018), “Farsi la Galera. Spazi e culture del penitenziario”, a cura di Elton Kalica e Simone Santorso, con contributi di Alvise Sbraccia, Francesca Vianello e Alessandro Maculan. Ringraziamo Valerio Pascali per il post. Buona lettura! … continua a leggere >

UN ASSAGGIO

Nota etnografica
di Francesca Vianello

Dopo aver atteso circa otto mesi per un’autorizzazione da parte del Ministero di Grazia e Giustizia che gli consentisse di procedere ad alcune interviste rivolte a soggetti migranti reclusi negli istituti circondariali dell’Italia del Nord, il collega si è visto consegnare una lista di nomi, decisi dalle direzioni degli istituti in base a criteri imperscrutabili… Il suo lavoro costituisce, nonostante i limiti appena descritti, una delle poche investigazioni sociologiche sul campo condotta attraverso le testimonianze dirette dei reclusi che è possibile rintracciare in Italia negli ultimi anni… Come ricercatore in carcere nel nostro Paese non si entra. Come si entra in carcere? Come imputato o condannato: evidentemente troppo caro il prezzo da pagare (e bisogna essere uomini per entrare in un carcere maschile). Come dipendente o contrattista dell’amministrazione penitenziaria: i sociologi non sono compresi tra lo staff deputato alla rieducazione. Come volontario, questo sembra abbastanza percorribile: un prezzo contenuto, costituito dalla necessaria frequentazione di ambienti cattolici; come osservatore di un’associazione per i diritti umani; come docente universitario, dove ci sono detenuti iscritti alla locale università. Proviamo a mettere insieme queste tre ultime forme, per vedere dove ci portano: come volontari possiamo entrare in carcere quando vogliamo, senza preavvertire, girare da soli per i corridoi e per le sezioni, parlare coi detenuti; come osservatori i colloqui non ci sono concessi, dovremo preavvisare delle nostre visite e saremo sempre accompagnati, ma avremo il vantaggio di poter visitare istituti diversi, di poter chiedere di aprire le celle e non conoscere luoghi vietati, di poter parlare col medico, con il direttore, con il comandante di polizia penitenziaria; come docenti possiamo prolungare i colloqui coi detenuti, farli incontrare con i nostri studenti, lavorare con loro, coinvolgerne alcuni nelle nostre ricerche. È meglio di niente, cercheremo di accontentarci. Le osservazioni e le testimonianze dirette che hanno consentito di portare avanti la nostra ricerca sono state dunque raccolte in carcere durante le nostre frequenti visite come volontari, come docenti e come osservatori di un’associazione umanitaria che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti (Note etnografiche, nordest, CR 07/07/2012, in parte cit. in Ferreccio, Vianello 2015, p. 335).

Come docenti, come volontari e ancor più come ricercatori l’accesso al campo del penitenziario è sempre molto limitato. Una serie di ostacoli viene comunemente frapposta tra l’operatore esterno e la popolazione detenuta, ostacoli materiali ben visibili (porte, blindati, circuiti di camminamento) e ostacoli più difficili da riconoscere che, attraverso pratiche amministrative o semplici consuetudini, rendono impossibile il contatto dell’operatore esterno con buona parte dei detenuti presenti nelle sezioni. Ad essere accessibili sono normalmente le aree del carcere frequentate da quella parte della popolazione detenuta che è considerata maggiormente affidabile – non fosse altro, al limite, per il fatto di avere qualcosa da perdere. Capannoni per le lavorazioni, aule scolastiche, auditorum e palestre, le rotonde in cui si tengono le attività culturali, sono spesso gli unici spazi in cui al volontario è consentito recarsi; e sono altrettanto spesso anche le aree in cui il ricercatore è caldamente invitato ad andare. Si tratta di tutti quei luoghi in cui il penitenziario ama mettersi in mostra, rivendicando il proprio progetto rieducativo, del quale i detenuti che è consentito incontrare diventano testimoni (cfr. Ferreccio e Vianello 2015).
Ciascuno dei luoghi di attività sopra citati costituisce di fatto “una prigione dentro la prigione” (Chauvenet, Rostaing e Orlic 2008, p. 6). I detenuti non si conoscono tra loro se non in funzione del criterio di affinità deciso dall’istituzione secondo logiche gestionali, i ‘circuiti’ si aprono e si chiudono al passaggio non solo dei detenuti, ma anche degli operatori: “i professionisti sono, come gli altri, sottomessi al principio della chiusura e alle regole della sicurezza. Questa chiusura è, nel loro caso, tanto temporale e spaziale che sociale” (ibidem). Medici, infermieri, psicologi, volontari e ministri di culto che vivono il carcere sono in realtà presenti solo in certi luoghi, in certi giorni e in certi orari e possono circolare solo lungo corridoi ben precisi. Il loro sguardo, per quanto apparentemente “interno” è necessariamente parcellizzato e funzionale: concentrati sulle proprie attività, impegnati spesso in sfiancanti contrattazioni con l’istituzione per acquisire e mantenere spazi di azione e di movimento, faticano (o semplicemente non sono interessati) a porre in relazione quella parte di “campo” che frequentano con il campo esteso del penitenziario, a leggerne funzionalità nascoste e mistificazioni, ad agire una riflessività capace di proteggerli dal rischio di stumentalizzazione di cui possono diventare oggetto.
Una frequentazione negli anni piuttosto assidua degli istituti penitenziari, in qualità di volontaria e di ricercatrice, mi consente oggi di disporre di una conoscenza abbastanza estesa e dettagliata del campo. L’osservazione compiuta a diverso titolo può non rispondere ai requisiti specifici dell’investigazione scientifica, ma la possibilità di conoscere e di “vivere” l’ambiente senza attivare le difese che normalmente alza chi sa di trovarsi sotto la lente del ricercatore costituisce una risorsa inestimabile. I colloqui e le interviste con detenuti e con operatori diventano così solo “un momento, senza dubbio privilegiato, in una lunga serie di scambi, e non hanno niente in comune con gli incontri puntuali, arbitrari e occasionali delle interviste realizzate in velocità da intervistatori sprovvisti di ogni competenza specifica” (Bourdieu 1992). Alla frequentazione prolungata si è aggiunta ad un certo punto la fortuna di poterci servire di un “giovane molto intelligente e dotato… che avrebbe potuto capire di che cosa avessi bisogno e sicuramente avrebbe conosciuto le persone che facevano al caso mio” (Whyte 1968, p. 372): si tratta di colui che oggi presenta in questo testo i suoi riscontri biografici, allora un giovane detenuto straniero, con parecchi anni di reclusione alle spalle e un paio d’anni davanti, laureatosi in carcere e impegnato nella redazione del giornale interno; oggi un ricercatore che, grazie alle conoscenze maturate e all’esperienza, è in grado di accompagnarci in una interpretazione più consapevole di quanto crediamo di vedere e comprendere come esterni.