Divenire invertebrato

 15.00

a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli

pp. 159
Anno 2020 (settembre)
ISBN 97888694811581

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Descrizione

Divenire invertebrato
Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido
a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli
Prefazione di Alessandro Dal Lago

Viviamo in un mondo fuori controllo. Il pianeta, che ci ha ospitato finora, è in ebollizione e minaccia la nostra stessa esistenza. Un numero di specie al limite della nostra capacità di comprensione si avvia ogni giorno verso l’estinzione, per non parlare del millenario sfruttamento e dell’incessante messa a morte di miliardi di “animali da reddito” perpetrati con mezzi sempre più osceni. Di fronte a questo scenario, da un lato le correnti maggioritarie dell’antispecismo non sembrano in grado di fornire risposte adeguate, dal momento che, pur nella variabilità delle loro proposte, hanno continuato a ruotare attorno a politiche dell’eccezionalismo umano. Dall’altro lato, la teoria critica, restando saldamente ancorata a modalità di pensiero obsolete e inefficaci, non ha fatto caso – o finge di non fare caso – che il nostro rapporto con le specie non umane è ormai completamente insostenibile e ingiustificabile.
Per iniziare a muoversi verso un antispecismo e una teoria critica non antropocentrici, questa antologia raccoglie un bestiario di saggi che trae ispirazione da alcune fra le più vitali e vivaci correnti del pensiero contemporaneo – dal realismo speculativo alle teorie materialiste derivate dal decostruzionismo derridiano, dal multiculturalismo prospettivista alle ontologie immanentiste di stampo deleuziano. Questo libro va letto come la prima mappa alternativa disegnata per orientarci nel territorio inesplorato della nostra convivenza con il resto del vivente.

Saggi di Claudio Kulesko, China Miéville, Eugene Thacker, Karen Barad, Eva Hayward e Jami Weinstein, Bogna M. Konior e Yvette Granata, Dagmar Van Engen.

Massimo Filippi, professore ordinario di Neurologia presso l’Università “Vita e Salute” di Milano, si occupa da anni della questione animale da un punto di vista filosofico e politico. È membro della redazione di “Liberazioni” e collabora con “Il Corriere della Sera” e “il manifesto”. Tra i suoi numerosi lavori e cure, per i nostri tipi ricordiamo Ai confini dell’umano (2010) e L’invenzione della specie (2016).
Enrico Monacelli è dottorando in Filosofia presso l’Università Statale di Milano. Ha collaborato con “aut aut”, “alfabeta2”, “Not”, “L’Indiscreto” ed è membro della redazione della rivista antispecista “Liberazioni”.

RASSEGNA STAMPA

MACHINA – Vortex

Divenire Invertebrat-e/*
Una lettura femministaqueer dell’antispecismo viscido
di Elisa Bosisio

Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido (ombre corte 2020), antologia curata da Massimo Filippi e Enrico Monacelli, è uno strumento diffrattivo e caleidoscopico che scomoda a viaggiare tra personali&politici, pratiche&teorie, dati&desideri già traditi e privi di riferimenti mutualmente escludenti.

Reload.

Fin dai tempi di Manifesto cyborg (1985) e de Le promesse dei mostri (1992) Donna Haraway — un’autrice le cui eco ricorrono senza sosta nell’antologia— invita a giocare molto seriamene con lo sguardo, la vista, le prospettive e l’ottica. La visualità anatomica umana — suggerisce — soffre di limiti naturculturali intrinseci&estrinseci che tagliano, sezionano e così producono una realtà carente rispetto ai movimenti multi-scala della materia che, in quanto stoffa del mondo, non resta in attesa di strumenti e discorsi che ne colgano limpidamente e annotino correttamente le caratteristiche stabili, ma agisce come artigiana&risultato di assemblaggi tra scambi chimici, salti fisici, simbiosi biologiche, pratiche mediche ed economiche, letteratura e produzioni tecnoculturali di varia sorta. Immersi in tale dinamismo differenziale, la vista antropica risulta una paradossale lesione retinica che segue i vettori di quel vecchio eliotropismo fallogocentrico [1] per cui ciò che vediamo attraverso i presuntuosi occhi da Sapiens si staglia nell’ambiente come su uno sfondo in cui tutto si individua lungo confini stabili e netti, vere e proprie linee di frontiera che atomizzano soggetti e oggetti che tutt’al più interagiscono saldi nella loro autocontenzione: è il reame della skinned existence — ossia dei recinti epidermici che astraggono dalle reti dell’esistente — come politica del posizionamento umanista, individualista, vertebrata. Questa postura, indifferente alle torsioni epistemologiche femministe e decoloniali degli ultimi quarant’anni, non concede di vedere im-mediatamente le micropolveri che invadono i nostri polmoni (scrivo dalla Lombardia, regione che l’Air Quality Report 2019 della European Environment Agency registra ad alta contaminazione), così come non permette di cogliere im-mediatamente e unitariamente gli effetti dei gas serra sulle alterità nonumane. L’elenco di ciò che tale sguardo non coglie potrebbe essere infinito: non tiene conto delle ecologie più-che-umane che si annidano rigenerativamente fin dalle nostre cellule, per proseguire nell’ambiente saturo che co-produciamo in assemblaggi irrilevanti per la cognizione dello sguardo illuminista, ma rilevanti come zone di contatto in cui la viseità cara ai «noiosi riferimenti degli ominidi» [2] lascia spazio e dignità epistemologica al tocco, all’esperienza viscerale, allo strofinio tra corpi compositi&composti e ciò che li circonda. Esperienze, queste ultime, forse già note alle creature tentacolari e striscianti.

Refresh.

Nelle pieghe di questo Novembre 2020 scandito dall’evolversi della pandemia di Covid19, il volume a cura di Filippi e Monacelli assume le sembianze di un nuovo dispositivo di visualizzazionecomplesso, parziale oltreché situato, capace di farla finita con la nostra cecità a 11 diottrie e di dislocare e hackerare la visualità per vedere altrimenti.
Ho intitolato questa recensione — che risulta piuttosto una riflessione politica-con e attraverso il testo — Divenire Invertebrat-e/*. Una lettura femministaqueer dell’antispecismo viscido. Un titolo ambizioso che segue le linee del network (o i fili della matassa) che i curatori hanno contribuito a cablare (o intessere) tra antispecismo&Animal Studies e femminismi&Queer/Feminist Studies. Le zone di contatto e interferenza tra queste esperienze sono esplicite in uno dei saggi contenuti nell’antologia Tranimalità nell’epoca della trans*-vita (pp.107-116) firmato da Eva Hayward e Jami Weinstein. Le autrici mappano e contribuiscono a implementare un’alleanza transpecie tra animali nonumani e soggettività sessualmente-non-conformi, certe che agenti forzati a occupare polarità depotenziate nei regimi d’economia binaria possano svelare l’agenda politica che articola grammatiche duali e dicotomiche come quelle animale o umano, femminile o maschile. La vita, dicono, è trans*, ossia l’in-between (lo stare tra), l’essere in-mezzo che è cifra ontologica dell’esistente in sé nelle sue proliferanti manifestazioni di specie (oltre la specie), di genere (oltre il genere), di razza (oltre la razza): è la generalizzazione per cui l’unicità di ogni soggetto si attiva solo negli incontri incarnati con altr*. L’escamotage grafico e concettuale dell’asterisco entra nel discorso come una ragnatela (o, se preferite, come un’anemone tentacolare) e lo performa a partire da esperienze trans*, manifestando la «natura» processuale delle differenze e la trasversalità/ibridità/irriducibilità della materia in sé, oltre l’umano: trans* è la tranimalità (p. 115) come esperienza comune a umani e nonumani in relazioni spazio-temporali radicate nella materia, ed è la transessualità come eventizzazione (p. 109) di identità che emergono da intra-azioni multi-direzionali. Di più: trans* è la specie che si disfa nelle sessualità polimorfe che tutt* siamo e il genere che si disfa nell’animalità.
Questa stessa grammatica dell’esistente costituisce la sfida di Karen Barad ne La performatività queer della natura (pp. 62-106). In questo saggio la fisica e teorica queer introduce noi lettor* alla correlazione quantistica [entanglement] come inseparabilità ontologica delle componenti agenzialmente intra-attive, spiegando come l’essere entangled non significa semplicemente essere aggrovigliati con un* altr*, come nell’atto di unione tra entità originariamente separate, ma piuttosto essere privi di un’esistenza indipendente e auto-contenuta. Le «cose» del mondo, sostiene e dimostra Barad, non pre-esistono le loro relazioni ma emergono da dentro i fenomeni in virtù di spaziotempomaterializzazioni (p.71) senza le quali non vi sarebbero le loro condizioni di esistenza. La «natura» in questo orizzonte si riconfigura come un sistema complesso in cui forze materiali e spinte semiotiche già composite funzionano come ingredienti (a loro volta compositi) per l’impasto (che diventerà ingrediente). Ma c’è di più, se i fenomeni e le cose si danno nell’incontro, anche lo sguardo di chi/cosa osserva/misura queste relazioni influisce sul cosa succede. Lo dimostra l’esperimento della doppia fenditura (p.95) che rende evidente come un’entità si comporti sia come un’onda che come una particella a seconda delle strumentazioni che la osservano. Ne deriva che l’identità dell’ente è ontologicamente performativa — non fissa o stabile —, ossia aperta a modellamenti che dipendono da rapporti complicati con l’epistemologia. Siamo di fronte alla politicità della torsione onto-epistemologica per cui Haraway ringraziava i femminismi; e i rimandi interni al volume curato da Filippi e Monacelli sono multipli: Bogna Konior e Yvette Granata in Ivvelenismo, uno scavo. Verso un femminismo-senza-esempi (pp. 117-124) assumono a tal proposito una postura critica verso il sapere filosofico che reputano in toto un’estroflessione dell’uomo-bianco/occidentale come unica interfaccia per il pensiero. Se la filosofia e la conoscenza tutta si sono mosse dentro il linguaggio patinato dell’illuminazione (e la loro risposta è impietosamente affermativa!), Konior e Granata ci ricordano che la luce del sole potrebbe averci accecat* e che potrebbe valere la pena di far pensiero al/nel buio: con loro e attraverso di loro mi chiedo, quindi, che canali possiamo attivare fuori dalla visualità illuminista che, ora, mi ricorda la luce fredda e martellante degli allevamenti in cui gli animali nonumani sono indotti a un nutrimento compulsivo o a quella nelle carceri che, nei racconti di molt* detenut*, disabitua al buio e alla sua sopportazione. Che succede se spegniamo i neon e dislochiamo lo sguardo nel resto del corpo, guardando con altri organi? Che succede se i confini ben tracciati e sgranati dei corpi — che proprio la luce permette di staccare dal campo — si sospendono nel buio che obbliga ad altre configurazioni di noi stessi, dell’ambiente e dell’altro? Cosa possiamo sentir-vedere nel buio?
È dal buio che, nei film e nella narrativa, compaiono (quasi sempre all’improvviso) i mostri che China Miéville (pp. 48-50) incontra nel suo decalogo senza precetti: creature che, dopo aver epitomizzato per secoli il pericolo, la malattia e la sventura, stanno diventando vere e proprie lines of flight da un presente asfissiante. Siamo forse ai tempi del monstrous turn? Da femminista mi chiedo: che succede dunque se, come Konior e Granata, facessimo pensiero camminando fuori dai sentieri illuminati a giorno dal riduzionismo antropocentrico dei saperi moderni? Se pensassimo toccando e non guardando? Se pensassimo respirando? Se pensassimo a partire dalle zanne (p.119) come parti eccedenti al sapere prodotto da quei lumi che disconoscono la complessità invisibile al mero sguardo anatomico oculare? Esiste una trama di relazioni invisibili ad occhio nudo e lo abbiamo già fatto presente con le femministe, scienziate e filosofe, che hanno rifiutato l’assimilazione neoliberale ai saperi cartesiani: il microscopio elettronico a scansione ha, per esempio, concesso alla biologa Lynn Margulis di scoprire — contro quello che chiamerò l’individualismo prospettico di Richard Dawkins [3] — che l’insorgenza di nuove cellule, tessuti, organi e specie è il risultato orizzontale di processi simbiogenetici che vedono diversi microbi, batteri e archea coinvolti in processi di quasi-fusione generativa e creativa (quella che chiameràintimacy of the strangers); raffinate tecnologie di visualizzazione hanno permesso di identificare nell’incontro promiscuo transregno il processo di formazione del genoma dei mammiferi (Homo Sapiens incluso) con particolare riferimento alle sue componenti virali [4]; le popolazioni Amazzoniche «vedono» da sempre la vita umana come uno dei nodi di un processo continuista di differenziazione e ricombinazione che mescola elementi in maniera non-tassonomica e creativa[5], e le popolazioni Aborigene dell’Australia hanno saputo riconoscere flussi e scambi tra corpi animali, umani e «ambiente»[6], mescolando le identità in relazioni ecologiche e riempiendo gli spazi vuoti che separano gli individui, anticipando su varie scale il principio di individualità emergente, transindividualità[7] o transcorporalità[8]. Con che occhi guardano le nuove tecnologie (le cui potenzialità non si esauriscono nella teleologia e nella progettazione ad opera umana) e le popolazioni non-occidentali che ci dimostrano che storicamente abbiamo visto solo quello che unaprospettiva poteva concederci di vedere?
Raccontare una cosa, viene da dire seguendo il pensiero di Barad, prevede il cimentarsi in uno storytelling naturculturale e non in descrizioni che ne sottendono la stabilità ontologica e insieme la limpidità epistemologica del discorso: dire le cose è dire i fenomeni da cui esse emergono e per farlo serve qualcosa di più dei nostri soli occhi.
Questa onto-epistemologia degli entanglement si deposita in maniera disturbate e sorprendente in Criptobiologie di Eugene Thacker (pp. 51-61), testo quanto mai attuale in questo 2020 pandemico. Con i dati del CTS e della Protezione Civile nelle orecchie, tremo e al contempo riprendo a nutrire speranza quando leggo che l’«ininterrotto andirivieni» (p. 54) di pezzi di materia microbici che passano da un corpo all’altro, svela la rete dell’esistente nella sua natura di network materiale e semiotico, in cui a contare non sono solo i «messaggi» (ossia i microbi che causano infezione e contagi), i canali del contagio ossia i vettori ambiental-materiali e i nodi della rete (ossia i corpi degli animali, principalmente umani, soggetti all’infezione) ma anche i dispositivi biomedici, i mutamenti evolutivi microbici, le scelte politiche delle autorità sanitarie preposte, fattori ambientali antropogenici come inquinamento, inurbamento, logistica, legiferazione. Stato e corpi, Capitale e Virus: vita e politica che si fanno a vicenda (ma che, dunque aggiungo, possono sempre disfarsi e/o rifarsi di nuovo). E se l’implacabile ottusità delle tassonomie spinge i biologi a discutere se i virus meritino lo statuto di «viventi» alla luce del fatto che non possono riprodursi in maniera indipendente e necessitano del metabolismo di un ospite per poter perdurare, alla femminista che legge viene da chiedersi cosa/chi sia davvero indipendente: forse siamo tutt* come i virus, ossia pezzi di materia più o meno complessi che hanno disperato bisogno de* altr* per sopravvivere, sempre espost* al rischio di un eccesso di quel contatto da cui tuttavia non possiamo sottrarci. Voglio respirare!, penso asfissiata dalle brutture di questo mondo dilaniato dal capitalismo, e lo devo fare per assicurare il corretto funzionamento delle mie cellule: ma il mio bisogno di ossigeno mi obbliga a inalare particolati industriali che ledono e ammalano i miei stessi polmoni. E in questa contraddizione vedo aprirsi spazi politici per alleanze tra i femminismiqueer e l’antispecismo viscido! Che ne facciamo degli entanglement che spesso, come rivela Thacker, sono sussunti nel loro dispiegarsi dalle intelligenze stataliste e dai progetti del capitalismo avanzato? Come co-abitiamo con queste alterità nonumane che formano il nostro DNA e alle volte (ci) ammalano?
Chi leggerà questa recensione e si imbarcherà nella lettura di Filippi e Monacelli, si esporrà a linguaggi stridenti e nuovi. Lungi dal rappresentare le ricadute linguistiche di una masturbazione intellettuale che nell’incomprensibile vede riflesse le proprie vette, il linguaggio lasciatoci in eredità dai padri del sapere non risponde alle nostre esigenze eterogenee e alla nostra rabbia politica per veder-toccar-sentire un mondo che dobbiamo imparare a dirci. Allora il prefisso intra- sostituisce il prefisso inter-, provando a rendere conto delle pieghe generative, che fanno un mondo più-che-atomista, un mondo di assemblaggi in cui ogni esistente è «solo» il risultato di un precedente compostaggio e sarà una delle condizioni per una nuova ri-composizione: un mondo di collettivi, assemblee, ecologie. Con l’aiuto del saggio di Claudio Kulesko (pp. 29-47), lungi dal romanticizzare questa relazionalità intra-produttiva — come fanno molte derive New Age che richiamano più l’appropriazione culturale che una riflessione politica ai tempi della crisi socio-ambientale — leggo Divenire invertebrato e riconosco — a volte dolorosamente a volte gioiosamente — che l’apertura è mia condizione di esistenza. Un’apertura vincolata e non assoluta, cementata da memorie e interfacce corporee, un’apertura che, tuttavia, mentre mi fa vivere non mi separa dall’aria satura che condivido con aziende petrol-chimiche e soggetti Sars-Cov-2 positivi.
Come femminista ho imparato i dolori dell’apertura mentre imparavo a pensare il capitalismo come emergente da processi generativi e metabolici. Il capitalismo, ci insegna un certo femminismo, ha imparato prima di noi a riconoscere le relazioni e la potenza rigenerativa dei corpi, per farli fruttare come plusvalore. Se il materialismo marxista femminista degli anni Settanta ha aperto la strada a una riflessione politica sui nessi invisibilizzati tra produzione capitalista e riproduzione sociale (quest’ultima intesa come pratica di cura e rigenerazione della specie/forza lavoro, scandita dal mantra «da un lato il male breadwinner, dall’altro la femalecaregiver»!), è a partire dai primi anni Ottanta che le pensatrici femministe investite dal fenomeno della rivoluzione post-industrialecodificata dalla Scuola di Chicago hanno ampliato la riflessione. All’alba della crisi delle risorse non-rinnovabili e del cambiamento climatico il capitalismo dovette decentrare i principi e le strutture fordiste per adattarsi a condizioni imprescindibili: allora la fabbrica venne almeno parzialmente dislocata dallo spazio industriale inquin-ato/ante ai corpi di tutt* e alle relazioni che essi intrattengono, topoi in cui tutto l’esistente viene messo al lavoro attraverso mediazioni tecnologiche sempre più raffinate e capaci di estrarre valore da affetti, creatività, incontri corporei, fluidi&pezzi organici. Più precisamente, nuove forme di produzione post-fordiste presero la materia, in ogni sua forma bio- o zoe- logica — dalla creatività intellettuale agli affetti, dagli embrioni fino agli animali nonumani ed ai batteri — immettendola nei flussi schizofrenici a sfruttamento e invisibilizzazione programmati dell’economia globale: è la femminilizzazione del lavoro tout court.
Le riflessioni di Divenire invertebrato, riconoscendo che l’esistenza in sé non è questione individuale ma sempre politica e sociale e andando a situare l’umano nell’ambiente complesso e saturo leggendone spinte e tendenze in intra-connessione con la dimensione biofisica, si inseriscono in un dibattito femminista interessato all’alterità nonumana già avviato, apportando lo strumento innovativo di quello che Filippi e Monacelli chiamano antispecismo viscido: una critica ai discontinuismi che usa l’ontologia promiscua delle specie invertebrate come (est)/etica rivoluzionaria. Questa (est)/etica opera attraverso figurazioni impreviste che rompono gli specchi dentro cui, come tanti/e Grimildi narcisiste, ci siamo specchiati/e saldi/e nella convinzione che non ci fosse altro da vedere oltre i confini di quel riflesso rassicurante, per fornirci così nuovi strumenti di visualizzazione meno oculari e più oculati, verso un ricollocamento dell’umano nella mischiadell’esistente in cui non c’è romanticizzazione né apocalisse, ma urgente bisogno di pensieri e pratiche che tengano conto del legame. Come fare perché questi entanglement o network siano nelle mani, nelle zampe e nei tentacoli delle creature che vogliono allearsi ai tempi dell’Antropocene e non nelle maglie dell’estrattivismo neolibreale?
Ai tempi del passaggio dalla valorizzazione economica della sola vita umana alla cattura delle tendenze simpoietiche[9] della materia senza limiti, Divenire invertebrato problematizza le frontiere tra ambiente e società, oggetto e soggetto, e funziona come una cassetta degli attrezzi, non come un punto di arrivo o una nuova Bibbia: è un insieme di utensili da impiegare per vedere il mondo altrimenti e fare del pensiero una leva per pratiche politiche che siano al contempo di critica, decostruzione (o preferiamo distruzione?) e cura: nei rapporti che producono incessantemente il mondo, perdere le vertebre vale a dire farsi molle, farsi finocchio, farsi queer, come nota Dagmar Van Engen in Come scopare con un* kraken (pp. 125-156) mentre cartografa le assonanze concettuali tra consistenza e forma di polpi e altr* invertebrat* con le categorie umane del pappamolle, dello smidollato, del non fallico e dunque impotente. Farsi invertebrat* potrebbe voler dire abbandonarsi a un fallimento queer[10]: deludere ogni aspettativa di eroica/scultorea foggia e diventare un* rivoluzionari* underachiever.
Tirando le multiple e complicate fila dell’antispecismo viscido con i femminismiqueer, chiudo con la fiducia in una ri-materializzazione del politico che complica la politologia occidentale come spazio privilegiatamente umano, sotto il peso della mancata considerazione e cura di chi è altr*. Una rimaterializzazione che è già una pratica di cura, perché rende conto e si rende conto.
Divenire invertebrato è uno stimolo ad aggiornare le parole d’ordine della militanza novecentesca: non è possibile alcuna autonomia, senza endosimbiosi; non è possibile alcuna libertà senza limiti materiali nell’epoca della Sesta Estinzione di massa. Che i bagliori dei nostri bengala illuminino le nostre alleanze oltre l’umano, accanto alle nostre identità! Oltre l’idea che su un pianeta infetto dobbiamo ballare solo ai ritmi macabri delle danze che inneggiano alla fine del mondo: perché il dolore che vogliamo provare — se lo vogliamo provare! — è solo quello kink e, a differenza di quello che infligge il Capitale a noi donne, ai queers, ai nonumani e a* reietti della Terra, è — e sempre sarà — con-sensuale.

Note
[1] D. Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata. DeriveApprodi, Roma 2019.
[2] L. Margulis e D. Sagan, Origins of Sex: Three Billion Years of Genetic Recombination, Yale University Press, New Haven 1984.
[3] R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Zanichelli, Bologna, 1979; Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione, Zanichelli, Bologna 1986.
[4] M. Horie, T. Honda, Y. Suzuki, Y. Kobayashi, T. Daito, T. Oshida, K. Ikuta, P. Jern, T. Gojobori, J. Coffin, and K. Tomonaga, Endogenous non-retroviral RNA virus elements in mammalian genomes, «Nature» 463 (2010): 84–87.
[5] E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, ombre corte, Verona 2017.
[6] E. Povinelli, The Cunning of Recognition: Indigenous Alterities and the Making of Australian Multiculturalism, Duke Press, Durham&NY 2002.
[7] G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2006.
[8] S. Alaimo, Exposed. Environmental Politics and Pleasure in Posthuman Times, University of Minnesota Press, Minneapolis&London 2016.
[9] M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, ombre corte, Verona 2013; A. Balzano, Biocapitale e potenza generativa postumana. Per una critica delle biotecnologie riproduttive trans-specie, «La Camera Blu» 11, pp. 29-46 2015.
[10] J. Halberstam, The Queer Art of Failure, Duke Press, Durham&NY2011.

Doppiozero – 1 dicembre 2020
Divenire invertebrato
Silvia Vizzardelli

Non tutto ciò che accade chiede di essere interpretato, compreso. Talvolta, soprattutto quando l’evento si manifesta in un tempo cairologico, indeterminato e qualitativo, un tempo “nel mezzo” in cui accade qualcosa di speciale, ci domanda piuttosto di spostarci, di cambiare posizione, di modificare l’assetto. Naturalmente da questa delocalizzazione scaturiranno nuove interpretazioni, nuovi significati, ma prima di tutto si tratta di traslocare, di rivoluzionare il setting della nostra vita. È noto, traslocare è un’operazione altamente riconfigurante, in nulla simile a una contingente variazione di dettagli decorativi. Traslocare significa affacciarsi su paesaggi diversi, vedere mondi inconsueti, persino modificare la propriocezione del corpo nello spazio o guardare con occhi diversi la persona che vive con noi.
Da otto mesi, circa, percepiamo la durata di un evento, come quello della pandemia in corso, che ci intima di cambiare assetto. Non rispondere a questo insistente invito, significa sbattere come falene al muro di una doppia interpretazione. C’è da un lato chi sostiene che nulla sia nuovo, che di virus ed epidemie la storia dell’umanità è piena, che il virus è parte del nostro corpo, è un nostro ospite per quanto sgradito. In questo caso prevale uno spirito di annessione, di addomesticamento: nulla di nuovo è accaduto, il virus è in noi. Dall’altro lato, c’è chi contempla attonito e rassegnato il drammatico spettacolo di una natura che fa il suo gioco, che dispiega la sua potenza, di una vita che batte, che pulsa, ignorando ed estromettendo la forma di vita che noi incarniamo. Catapultato fuori dai concatenamenti delle forze in gioco, l’essere umano si fa spettatore dell’inesorabile necessità del reale, partecipando a un destino, a una fatalità.
È possibile immaginare una terza via: traslocare in un quartiere in cui assoluta prossimità o distanza fatale non hanno più diritto di cittadinanza. Certo, il virus ci suggerisce che la vita è assai più estesa del nostro minuto e parziale punto di osservazione, ma questo non significa che il nostro compito finisca qui. Più estesa non vuol dire che ci taglia fuori, , al contrario, che ci include. Sentirsi parte del gioco, e lo siamo effettivamente, è anche il primo antidoto all’angoscia.
Con quale luogo ideale dobbiamo dunque prendere confidenza? La filosofia contemporanea ha oramai messo a fuoco, in una correlazione implicita o esplicita con gli sviluppi della fisica quantistica, una questione formulabile a partire da un paradosso: esiste una relazione fondata sul non-rapporto. La relazione tra esseri ed enti non è avvicinabile, o lo è solo parzialmente, secondo il paradigma della continuità, della tessitura di fili che garantiscano l’intesa, la comunicazione, non è pensabile pontificando, gettando ponti. Ben diversamente, tutto si gioca nel valorizzare separatezze, interruzioni, lacune, baratri, che, pur restando insaturabili, si mostrano capaci di istituire legami e relazioni, o meglio correlazioni. Evidentemente si tratta di scommettere su una nuova concezione di “legame” e di “relazione”, capace di sacrificare ogni deriva fusionale dell’empatia, ogni paradigma continuista, mettendo in discussione il principio di ragion sufficiente, a favore di una diversa causalità basata sul rapporto in distans. È il pensiero francese contemporaneo che, più di altre tradizioni, ha saputo confrontarsi con questo paradosso. > continua a leggere >


 

RADIO POPOLARE – “Considera l’armadillo”, venerdì 09/12/2020

Intervista radiofonica con i curatori del volume: Massimo Filippi ed Enrico Monacielli
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La Balena Bianca

Nuove storie per la storia della vita. Su “Divenire invertebrato”
di Antonio Iannone

Perché si possa interrogare il volume collettaneo “Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido” a cura di Massimo Filippi ed Enrico Monacelli (ombre corte, 2020), testo-atlante per un esser-contemporaneo non più solo disseccato/archiviato, capace a un tempo di memoria e ribollente materia, non sembra privo di interesse tracciare due segnavia per itinerari solo all’apparenza distinti. L’architettura entro cui sarà possibile un dialogo tra le cronologie si accorda con l’incedere dell’opera verso singolarità del sistema-Storia.

Il primo si potrebbe dipingerlo sull’altipiano della storia dell’ordine, delle classificazioni, delle tassonomie. L’epoca risorgimentale gronda di tentativi enciclopedici. Il “Tableau accomplis de tous les arts libéraux”, ad esempio, per firma dell’erudito Christophe de Savigny in due edizioni licenziate rispettivamente nel 1587 e nel 1619. In esse le sette arti liberali, ovvero lo scibile linguistico-argomentativo (grammatica, dialettica e retorica) insieme a quello generalmente scientifico (aritmetica, musica, geometria, astronomia) era amministrato nella forma di una proto-enciclopedia entro cui il sapere si ramificava in unità circolari. Non v’era dotto del Risorgimento che non considerasse la forma orbitale una sublimazione delle geometrie platoniche. Il celebre modello presentato da Johannes Kepler nel Mysterium Cosmographicum raffigura cinque poliedri ciascuno incastonato dentro l’altro e le cui geometrie, insieme raffigurazioni del moto planetario ed emblemi degli elementi naturali, dimostrano l’orbitare del sistema solare. Quella di de Savigny è dunque letteralmente un’enciclopedia: un cerchio utile all’insegnamento. Nel prospetto le arti sono annodate circolarmente tra loro, ornate da un concatenamento al cui interno di ogni maglia si può leggere l’insegna di una disciplina. Ma non la sola concatenazione: allo stesso modo il contenuto della struttura ovale è tutto miniato a unità tentacolari. L’unica origine che tra loro resiste è il solo soggiogarsi al medesimo sistema della Philosophie perché gli enti generali siano aristotelicamente distinti dai particolari. Il tentativo d’ordine diviene più ambiguo e polivalente con il sovrastare del particolare sul generale – il quale si arresta alla sola retorica – finché ogni altra dottrina non abbia raggiunto la propria individualità: l’uomo si esaurisce nell’antropologia, ma prima ancora era stato originato dal sistema dei corpi e ancor prima dall’appartenenza all’apparato dei soggetti naturali. Questo micro-storicizzarsi delle facoltà nel più diffuso sistema del sapere potrebbe servire da didascalia per le oddities, le eccentriche peculiarità scandagliate in “Divenire invertebrato”. > continua a leggere >


 

IL LAVORO CULTURALE – 2 2ovembre 2020

Performare l’invertebrato
di Davide Tolfo

Bestialità del desiderio, desiderio della bestialità.

Nel 1978, alla XXXVIII Biennale di Venezia, Antonio Paradiso mise in scena uno spettacolo destinato a entrare fin da subito nella lunga lista di scandali artistici. All’interno di un recinto appositamente costruito, l’artista pugliese espose al pubblico l’accoppiamento tra un toro e una mucca meccanica. Interrogato sul motivo di questa operazione, Paradiso rispose che da anni i tori non vedevano una mucca vera, sottolineando implicitamente che ciò che aveva presentato non era diverso da quello che abitualmente succedeva nelle fattorie più industrializzate. L’idea fintamente romantica della campagna come luogo contrapposto alla città, all’interno della quale sopravvivono relazioni differenti tra umani e non umani, viene visivamente attaccata dallo spettacolo contro natura di un accoppiamento tra organico e macchina, tra animale e tecnica.

Ad emergere, in questo modo, sono due elementi perturbanti che sostengono l’intera scena: la bestialità del desiderio e il desiderio della bestialità. Non ci sarebbe stato stupore se quest’azione artistica non interpellasse quel movimento di antropomorfizzazione dell’animale che ci chiama in causa quando si parla di istinto. La scomoda presenza di un’animalità all’interno dei nostri desideri ci obbliga, nonostante gli infiniti tentativi di creare una separazione ontologica tra umani e non umani, a fare i conti con una congiunzione, una connessione, che ci spossessa. Dall’altra parte, proprio le differenti capacità di reagire, vivere e modulare gli affetti da parte di altre specie, aprono lo spazio per un’attrazione, un desiderio della bestialità. È nel campo problematico che tiene assieme questi due poli che si possono collocare i sette saggi che compongono Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, antologia di testi curata per Ombrecorte da Massimo Filippi e Enrico Monacelli. > continua a leggere >


 

RADIO ONDA D’URTO – 29 Ottobre 2020
DIVENIRE INVERTEBRATO – DALLA GRANDE SCIMMIA ALL’ANTISPECISMO VISCIDO

Ascolata l’intervista a Massimo Filippi


 

il manifesto – 13.10.2020

Mostri amebe e atomi. Quando l’antispecismo può dirsi «viscido»
«Divenire invertebrato», a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli edito da ombre corte
di Luca Romano

Era il 1980 quando all’interno di Millepiani, Deleuze e Guattari consegnavano il concetto di rizoma che oltre alla fondamentale perdita della gerarchia forniva una visione di pensiero e di mondo privi di centralità. La perdita della centralità come luogo, non solo fisico, ma appunto territoriale-logico, è necessaria per rileggere alcune delle correnti di studio più diffuse in questi anni come gli animal studies. È infatti decentralizzando, deterritorializzando la visione antispecista che la si può guardare in un’ottica diversa, decostruita, nuova e sessualmente più fluida.
Ed è a partire da questo che si può leggere Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo, volume curato da Massimo Filippi e Enrico Monacelli e pubblicato per ombre corte, con la prefazione di Alessandro Dal Lago (pp. 159, euro 15).
SIN DAL TITOLO l’impronta di Deleuze sulla lettura e rilettura dell’antispecismo è chiara: i saggi contenuti partono dall’idea di un «antispecismo viscido» pensato per «pro/muovere una visione antispecista, ancora in fieri, capace di trarre ispirazione da alcune fra le più vitali e vivaci correnti del pensiero critico contemporaneo, dal realismo speculativo alle teorie materialiste derivate dal decostruzionismo derridiano, dal multiculturalismo prospettivista alle ontologie immanentiste di stampo deleuziano o laurelliano».

Il libro propone questa visione attraverso una pluralità di voci e stili che si alternano e costruiscono un pensiero critico complesso e multiforme. I saggi contenuti e che vedono autori come Claudio Kulesko, China Miéville, Eugene Thacker, Karen Barad, Eva Hayward, Jami Winstein, Bogna M. Konior, Yvette Granata e Dagmar Van Engen, consentono a chi legge una costruzione del proprio punto di vista in una accezione fluida, aprono porte e conducono spesso verso nuove letture, dai classici del pensiero filosofico, a grandi pensatori contemporanei. È necessario, infatti, capire e ampliare l’idea di antispecismo al momento dominante, ed è necessario farlo attraverso la contaminazione, iniziando a interpretare il concetto di natura come un processo aperto, non come un insieme finito con un punto di partenza e quindi con un punto di arrivo. Questo passaggio avviene, appunto, anche con la perdita di centralità della visione di animale (termine fin troppo generico, come ci insegna Derrida) vertebrato e sessualmente normalizzato.

COSÌ I SAGGI presenti iniziano a popolarsi di creature viventi e non, che vanno dal mostro, alla pfiesteria, dagli invertebrati acquatici agli atomi o alle amebe, specie che diventano difficilmente classificabili attraverso la lente di una ontologia classica, ma sono leggibili, appunto, attraverso una nuova prospettiva di ontologizzazione trans, scrivono, ad esempio, Eva Hayward e Jami Winstein: «Se trans* è ontologico, lo è in quanto movimento che porta l’essere a esistere. In altre parole, trans* non è una cosa o un essere, ma è il processo attraverso cui la cosalità e l’essere si costituiscono».

ED ECCO CHE L’APERTURA dei concetti e delle definizioni sulle quali poggiano gli animal studies, porta a una visione più ampia e complessiva di quella che è l’essenza di tutto ciò che non è incasellabile in un’ottica binaria. Quello che viene proposto in questo volume è un processo di interpretazione che ha tra le sue possibilità la decostruzione come anche il divenire con, che muove da Derrida a Donna Haraway, dalla «tranimalità» alla sessualità compresa in generi fantastici e non umani. Una impronta queer che sottrae l’essere vivente dalle standardizzazioni e dai binarismi.
Filippi e Monacelli hanno costruito una raccolta di saggi che ribalta le definizioni spesso legate a visioni confortanti dell’antispecismo, riportando al centro animali invertebrati, viscidi, ripugnanti e soprattutto contaminando con una visione fluida lo spazio critico e d’analisi.

«DIVENIRE INVERTEBRATO» raccoglie la pluralità e la riconsegna in una forma ibrida e sempre mutevole, mostrando come le questioni antispeciste, quelle sessuali e quelle identitarie, oltre alle questioni politiche che da questi studi derivano, sono tutte legate assieme in maniera indissolubile, ed è in questi intrecci disciplinari che bisogna indagare per non arrestare l’analisi a ciò che più conforta l’essere umano.


 

Dinamopress – 27 settembre 2020

Per farla finita con le vertebre. Antispecismo viscido e forme di convivenza interspecie tra le rovine del pianeta

di Teresa Masini

Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido (ombre corte, 2020) è l’antologia di saggi a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli che cartografa un mondo in crisi. Il libro ci regala un percorso possibile fuori-dentro-fuori la filosofia per uscire definitivamente da ogni residuo antropocentrista e iniziare a pensare e vivere diversamente i rapporti tra specie, corpi e materie… > continua a leggere

 


Dinamopress – 27 settembre 2020
Per un Antispecismo viscido: Divenire-Invertebrato

di Gioele P. Cima

L’antispecismo viscido proposto da Massimo Filippi e Enrico Monacelli prova a ripensare la specie come un’entità barbarica «una fra le tante contrazioni aggroviglianti e vischiose della materia». Di contro a un homo sapiens che separa e categorizza, il divenire invertebrato perverte e destabilizza, e traccia vie di fuga verso un’instabilità animale… > continua a leggere

 


EFFIMERA – 30 settembre 2020

Solo un mostro ci può salvare

di Carlo Salzani

Recensione a Massimo Filippi e Enrico Monacelli (a cura di), Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, ombre corte, Verona 2020

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Negli ultimi quattro decenni la questione animale è passata dalle frange marginali di un discorso filosofico e religioso sostanzialmente intriso di utopia e moralismo a una (relativa) centralità non solo in ambito filosofico, ma anche all’interno di discorsi più mainstream in ambito sociale, culturale, politico e mediatico. Prova ne sono non solo il fatto che in questo lasso di tempo sono stati pubblicati più libri sul tema che in tutta la precedente storia della scrittura umana, ma anche significativi miglioramenti legislativi in molti stati che prendono in considerazione il “benessere” animale in molte delle “zone di contatto” tra umani e non umani (zoo, circhi, laboratori, allevamenti, mattatoi, ecc.). E tuttavia, a livello pratico, bisogna ammettere che ben poco è cambiato per la vita (e la morte) degli animali non umani. Quello che non è cambiato sono i presupposti ontologici che rendono gli animali non umani “uccidibili”, e questa non è semplicemente una questione di etica individuale, ma è eminentemente una questione politica che riguarda il “vivere comune” di umani e non umani in un pianeta condiviso… > continua a leggere

 


L’INDISCRETO – 2 ottobre 2020
La natura come intelligenza sintetica

di Claudio Kulesko

Questo saggio è estratto da Divenire invertebrato, a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli. Ringraziamo ombre corte per la gentile concessione.

La molteplicità, l’eterogeneità e la frammentarietà sembrerebbero alla base di tutti i processi naturali, anche qualora tale abbondanza dia origine a strutture dotate di solidità e stabilità architettoniche… > continua a leggere

UN ASSAGGIO

Indice del volume

7 Prefazione
di Alessandro Dal Lago
13 Introduzione. Il viscido, l’informe e il comune. Note per un antispecismo alienante
di Massimo Filippi e Enrico Monacelli
29 Macchine compositive. La natura come intelligenza sintetica
di Claudio Kulesko
48 Tesi sui mostri
di China Miéville
51 Criptobiologie
di Eugene Thacker
62 La performatività queer della natura
di Karen Barad
107 Tranimalità nell’epoca della trans*-vita
di Eva Hayward e Jami Weinstein
117 Ivvelenismo, uno scavo. Verso un femminismo-senza-esempi, in dieci parti
di Bogna M. Konior e Yvette Granata
125 Come scopare con un* kraken. Sessualità cefalopode e generi non binari negli ebook erotici
di Dagmar Van Engen
157 Tentacoli
Fonti, note biografiche, ringraziamenti


 

Prefazione
di Alessandro Dal Lago

Quid ibi immundae simiae? quid feri leones? quid monstruosi centauri? quid semihomines? quid maculosae tigrides? quid milites pugnantes? quid venatores tubicinantes? Videas sub uno capite multa corpora, et rursus in uno corpore capita multa.
Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum, xii, 29

Con chi ce l’aveva, nella celebre Apologia, l’austero santo e dottore della chiesa citato sopra? Con la rappresentazione, nei capitelli dei colonnati che ornavano i chiostri dei conventi, di immonde scimmie, feroci leoni, mostruosi centauri, tigri maculate, mezzi uomini, soldati in battaglia, cacciatori che suonano i corni, nonché esseri con molti corpi e una testa o un corpo e molte teste. In una parola, ce l’aveva con la rappresentazione dei mostri e altri esseri abietti, come quelli che si macchiano di sangue, soldati e cacciatori. La riprovazione del dotto cistercense, gran disciplinatore delle cose ecclesiastiche e nemico degli eretici, non sembra però aver ostacolato la diffusione dei mostri nell’architettura religiosa. Basterebbe dare un’occhiata ai doccioni o gargoyle del Duomo di Milano, edificato circa tre secoli circa dopo Bernardo, per avere un’idea della perdurante fascinazione medievale per i mostri.
A onta di santi e teologi, il Medioevo conviveva felicemente con il mostruoso. Come avrebbe potuto la novella cristiana della salvezza diffondersi concretamente tra le genti senza l’evocazione di ciò che è fuori da ogni norma o decenza? Come illuminare la santità, se non sullo sfondo dell’immondo? Si noti: il mostruoso non è necessariamente una manifestazione del diabolico. Quest’ultimo ama travestirsi, assumere forme ambigue e apparentemente normali – che so, una bella fanciulla, una capra, un sapiente barbuto –, mentre il mostruoso è ciò che appare clamorosamente alla vista, si mostra nella luce cruda del meriggio. Le gargoyle, bestie con il volto deforme di umani, cani ringhianti o avvoltoi, sono ben visibili all’esterno delle cattedrali perché il fuori non è protetto dalla santità, riservata all’interno dei sacri edifici. Minacce, dunque, ma anche guardiani che intimano ai peccatori di mondarsi prima di incedere sotto le navate. Mostri necessari, come è il Quasimodo di Victor Hugo, gargoyle umana che protegge e al tempo stesso minaccia Notre-Dame.
L’umanità medievale vive letteralmente in compagnia dei mostri. Ho in mente la Navigatio Sancti Brendani (ix secolo), che probabilmente ha ispirato a Dante alcune immagini chiave, come la montagna del Purgatorio, quella, circondata da nubi, che appare a Ulisse e ai suoi compagni nell’ultimo viaggio verso l’equatore. Il santo irlandese – un uomo di chiesa realmente vissuto – s’imbarca con 14 monaci (due volte sette, numero fatale nell’immaginario antico e medievale) su un canotto a vela che affronta le onde oceaniche. Nel viaggio vanno di isola in isola, taluna abitata da religiosi, altre impervie e disabitate, ma in ogni caso circondate da mostri e fiere, nell’aria e nell’acqua. In un’incisione del xv secolo, San Brendano approda su un’isola-balena, dove apparecchia un altare e verosimilmente dice messa. L’isola-pesce è un luogo ricorrente dell’iconografia medievale: in essa si fondono due idee, l’enormità delle mostruose creature acquatiche, paragonabili solo a isole, e la scivolosità dell’apparente terraferma. In ogni momento, Leviatano può immergersi, abbandonando alle acque i coraggiosi o gli sventati che vi avevano posato i piedi. Per mentalità dei secoli cosiddetti bui, un terremoto poteva essere il risultato dell’agitarsi improvviso di una bestia vivente subito sotto la crosta terrestre.
Per il resto, le acque sono abitate da cefalopodi capaci di stritolare e affondare i navigli, polpi immani come il celebre kraken, aragoste grandi come cavalli, che immaginiamo capaci di tagliare in due i marinai con le enormi chele e così via. Per quanto riguarda i mostri terrestri, uno sguardo alle opere di Hieronymus Bosch, che utilizzava ogni tipo di fonte iconologica, ci permette di immaginare quali mostri abitassero la fantasia tardo-medievale: umani con zampe d’animale, scheletri a cavallo di vermi, anfibi che divorano uomini, orecchi dotati di braccia, uova bipedi e così via. Si tratta del prodotto di un’ars combinatoria che eccede i limiti della logica esangue cara a Raimondo Lullo e Leibniz. Nella teratologia medievale tutto si confonde con tutto, i corpi trapassano nei corpi, gli organi si combinano con naturalezza. La morale del tempo impediva a Bosch di rappresentare esplicitamente la sessualità ma in Il giardino delle delizie, il trittico oggi al Prado, immagini paradisiache e infernali coesistono senza problemi. Adamo ed Eva si abbracciano nudi nell’acque, ma sulle rive occhieggiano mostri di ogni tipo, che immaginiamo bramosi di gettarsi avidamente sui nostri due malcapitati progenitori, non appena saranno cacciati dall’Eden.