Dances with stereotypes

 16.00

Lorena Carbonara

pp. 178
Anno 2020
ISBN 9788869480911

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Descrizione

Lorena Carbonara
Dances with stereotypes, La rappresentazione linguistica e visuale dei nativi americani: una prospettiva multimodale

l volume parte da una riflessione sull’assenza e sul silenzio. La figura dell'”indiano”, che ha popolato l’immaginario di bambini e adulti a livello transnazionale per decenni, pare essere scomparsa dai grandi e piccoli schermi. Con il declino del cinema western questa icona di celluloide è venuta a mancare, mentre dai circuiti cinematografici indipendenti negli Stati Uniti emergono opere che ritraggono le popolazioni native d’America oggi. Trasformando la secolare tradizione dello storytelling orale in narrazione audiovisiva, queste autoproduzioni intendono decostruire gli stereotipi linguistici e visuali creati e diffusi dal cinema mainstream e puntano alla riappropriazione della sovranità linguistica e visuale da parte della comunità nativa. Dopo una panoramica che illustra gli strumenti d’indagine interdisciplinari utilizzati per l’analisi dei film che costituiscono il corpus, lo studio si concentra sull’approfondimento storico-culturale della cosiddetta “questione indiana”, in particolare sulla politica educativa e linguistica in atto nelle boarding schools nel corso del xix secolo. È quindi analizzato il rapporto esistente tra Standard American English e American Indian English e le declinazioni dell’Hollywood “Injun” English e del Rez Accent. Nella parte conclusiva, l’analisi multimodale condotta su alcune sezioni del corpus, composto da produzioni cinematografiche western tra gli anni Trenta e Novanta e autoproduzioni native indipendenti, evidenzia le potenzialità insite nell’operazione di decolonizzazione della/con la lingua e delle/con le immagini.

Lorena Carbonara è ricercatrice di lingua e traduzione inglese presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università degli Studi di Bari, dove insegna lingua e traduzione inglese, traduzione audiovisiva e culture letterarie e visuali anglo-americane. Coordina i progetti “Traduzione audiovisiva, saperi interdisciplinari e nuove professionalità” (Future in Research/Regione Puglia) e “Accessibilità, Audience Development e Audiovisual Literacy” (Centro Studi e Ricerche di Apulia Film Commission) ed è componente del gruppo di ricerca internazionale “S/murare il Mediterraneo”. Si occupa di inglese come lingua franca (ELF) in contesti migratori, traduzione audiovisiva, Native American Studies, Multimodality e Critical Discourse Analysis.

Rassegna stampa

UN ASSAGGIO

Introduzione

I’m sorry Mr. Crazy Horse
but we’ve already taken too much of your blood
and you won’t be eligible to donate
for another generation or two.
Sherman Alexie, “Giving Blood”

Questo testo parte da una riflessione sull’assenza e sul silenzio. La figura dell’“indiano”, che ha popolato l’immaginario di bambini e adulti a livello transnazionale per decenni, pare essere scomparsa dai grandi e piccoli schermi. Recentemente è stata riportata alla ribalta della cronaca dalla protesta dei water protectors a Standing Rock (North Dakota, USA), tra il 2016 e il 2017, di cui si parlerà più approfonditamente nel primo capitolo del presente lavoro. Con il declino del cinema western “l’indiano” di celluloide è venuto a mancare; solo gli addetti ai lavori sono a conoscenza che egli sia stato sostituito dal nativo “vero”. Infatti, dai circuiti del Sundance Film Festival e altre manifestazioni indipendenti negli Stati Uniti emergono costantemente opere cinematografiche che ritraggono lo stato dell’arte delle popolazioni native di oggi. Non si tratta di opere documentaristiche ma di film che è possibile definire a pieno titolo contro-narrazioni, secondo l’accezione offerta da Mona Baker.
Questi prodotti si configurano in primis come opere d’arte, ma verranno qui analizzate come opere di resistenza che, trasformando la secolare tradizione nativa dello storytelling orale in narrazione audiovisiva, decostruiscono gli stereotipi a cui il cinema mainstream ci ha abituati e a cui siamo tutti in qualche misura assuefatti, nativi americani compresi. “The films provide a Native presence where there was absence”, afferma Lee Schweniger (Schweniger 2013, p.3), sottolineando l’importanza della riappropriazione della narrazione audiovisiva da parte di sceneggiatori, registi e attori nativi. L’analisi qui proposta è stata condotta sulla base della consapevolezza che l’importanza dell’autorappresentazione come forma di resistenza non deve essere anteposta all’apprezzamento del cinema nativo dal punto di vista estetico; la battaglia fondamentale che i filmmakers nativi stanno combattendo consiste nella conquista di una totale ”sovereignity of storytelling”.
Lo studio prende in esame produzioni hollywoodiane western tra gli anni Trenta e gli anni Novanta e autoproduzioni native a partire dal 1998, mirando a evidenziare come queste ultime utilizzino il mito dell’Ovest per rovesciarlo in un primo momento e liberarsene successivamente. La Renaissance del cinema nativo di questo secolo, definito da Casey R. Kelly “a crafting counter-cinema”, è legata al concetto di sovranità, cioè alla riappropriazione della narrazione linguistica e visuale di sé in atto nelle comunità native d’America. Michelle Raheja colloca questo fenomeno nello spazio che si crea tra la resistenza e il conformismo, in cui gli artisti “contribute to, borrow from, critique, and reconfigure ethnographic film conventions, at the same time operating within and stretching the boundaries created by these conventions (Raheja 2007, p. 1161)”. Come sottolinea Kelly, “these films address the most common stereotypes: the stoic warrior, the vanishing American, the Plains Indians, and the wise elder” (ivi, p. 20), ritraendo i personaggi in ruoli ordinari: studenti, diseredati, DJs, sportivi, veterani, poliziotti, poeti, musicisti, omosessuali etc.
Di contro, l’assenza di personaggi nativi dai più popolari serial americani in cui trovano spazio i latinos, i chicanos, gli afroamericani, gli italoamericani etc. (seppur anch’essi fortemente stereotipati), crea una sorta di fil rouge con i secolari tentativi di far svanire le popolazioni native dal continente, sterminandole o forzandole al silenzio. In questo studio si tenterà di mostrare come l’apparente sparizione dei nativi dalla scena interessi solo le produzioni mainstream e che esiste invece un grande fermento realmente “indigeno”. Ci si soffermerà sulla difficoltà di liberare le narrazioni dall’influenza della “public narrative” americana che è riuscita a insinuarsi socio-cognitivamente nella mente degli spettatori e non solo. Per un decennio, infatti, le produzioni native hanno continuato a “dialogare” con il western attraverso riferimenti intertestuali e intermediali e dunque a interagire con una doppia audience.
Attraverso gli strumenti d’indagine offerti dall’analisi critica del discorso (soprattutto, Ruth Wodak 2009, 2015; Ruth Wodak e Martin Reisigl 2001; Teun van Dijk 2008, 2015) e dall’approccio multimodale (Gunther Kress e Theo van Leeuwen 2001; David Machin e Andrea Mayr 2012), si procederà alla messa in luce di come lo stereotipo dell’ “indiano” sia stato costruito a livello linguistico e visuale e di come sia possibile decostruirlo con gli stessi mezzi. Partendo dalla consapevolezza che la grammatica del discorso filmico e la lettura multimodale dell’opera cinematografica sono state ampiamente affrontate e messe in discussione (tra gli altri, Christian Metz 1974; David Bordwell 1989; John Bateman 2013 e John Bateman e Karl-Heinrich Schmidt 2012; Janina Wildfeuer 2014), ci si concentrerà sui casi studio e sulle possibilità offerte da queste contro-narrazioni native in termini di riappropriazione di un proprio linguaggio.