Corpi e recinti

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Pierpaolo Ascari

pp. 115
Anno 2020
ISBN 9788869481406

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Descrizione

Pierpaolo Ascari
Corpi e recinti
Estetica ed economia politica del decoro

Le politiche per il decoro occupano da qualche tempo una posizione di punta nelle strategie per il governo dei comportamenti e delle diseguaglianze sociali. Apparentemente il divieto di stendere il bucato alle finestre o di coricarsi sulle panchine di un parco sembrerebbe rinviare al confine tra le prerogative del giudizio estetico e i problemi di ordine morale, ma osservate più da vicino tutte queste proibizioni si rivelano il prolungamento della guerra ai poveri e delle politiche migratorie con altri mezzi. Quelle che il decoro bandisce sono le impronte urbane della classe e della razza, la memoria vivente di una città sufficientemente porosa da lasciar intravvedere gli aspetti meno neutrali del paesaggio connaturato al potenziamento della rendita e del profitto. Delle pessime ragioni della pubblica decenza, dunque, è possibile tratteggiare un’economia politica che attraverso la formazione ottocentesca dei quartieri operai in Inghilterra, l’urbanistica coloniale di Algeri, gli uffici di collocamento nella Berlino degli anni Trenta, l’Italia delle migrazioni interne, gli Stati Uniti della tolleranza zero e i centri deputati allo smistamento dei migranti non ha mai smesso di assegnare allo spazio il compito di molestare e colpevolizzare le vite degli sconfitti. Ma il senso di queste molestie emerge in tutta evidenza attraverso l’analisi di quanto accade sui boulevard del Secondo Impero, dove all’allontanamento dei soggetti sgraditi dovevano innanzitutto corrispondere la produzione dei bisogni, i desideri e l’esperienza corporea dei soggetti conformi. Le politiche per il decoro, allora, si potrebbero definire forme di “recinzione percettiva”, misure di intervento sulla realtà percepita che delle vecchie enclo- sure trattengono sia la valenza predatoria che quella disciplinare, alimentando la percezione dell’insicurezza.

Pierpaolo Ascari è professore a contratto di Estetica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna. Ha scritto Ebola e le forme (manifestolibri, 2016) e Attraverso i confini. Lettura, storia ed esperienza estetica in Stendhal e Flaubert (Mimesis, 2018). Collabora con il quotidiano “il manifesto”.

Rassegna stampa

Sociologia urbana e rurale n. 122, 2020: 169-178
Recensione di Agostino Petrillo

Jean-Jacques Rousseau faceva comin- ciare la sua controstoria della civiltà dal primo uomo che aveva recintato un campo. L’atto di violenza originaria che appropria quel che prima era di tutti, impedendo agli altri l’accesso e l’utilizzo della terra è un atto fondativo, che innesca per imitazione e progressiva intensificazione una intera civiltà del possesso e della esclusione. La società “proprietarista” nasce dunque da un “crimine” originario, operato da chi per primo ha detto: “questo è mio”, e ha così prodotto la rottura di quello che era un ordine precedente e naturale. La “civiltà”, nella valenza negativa che Jean-Jacques le attribuisce, è figlia del recinto. Ritroviamo il fascino di questa potente suggestione roussouiana nelle pagine che Pierpaolo Ascari nel suo recente la-voro ha dedicato alla coppia concettuale corpo/recinto. Il testo si muove all’incrocio tra una storia della recinzione e l’emergere contemporaneo di una nuova estetica del decoro, tentando la ricostruzione di una genealogia in parallelo dei due processi, a cominciare da un momento decisivo: quello della nascita del capitalismo. Enclosures e decoro sono un prodotto della medesima violenza che non solo è generativa, permettendo l’accumulazione originaria nel momento aurorale del capitalismo stesso, ma lo accompagna lungo tutto il corpo della sua storia, nel corso della quale il recinto si dispiega in tutte e due le sue dimensioni, quella “appropriativa” proiettata verso l’esterno, cha appunto delimita, escludendo la possibilità di un accesso del pubblico al bene che viene privatizzato, e quella rivolta verso l’interno che lo vede funzionare come un dispositivo che racchiudendo esclude, che mette ai margini gli inutili, i vagabondi, i poveri. «Le ordinanze anti-bivacco dei giorni nostri» non sarebbero dunque altro che «il prolungamento della guerra incessante che il capitale non ha mai smesso di combattere ed armare contro l’esuberanza dei corpi». In un’analisi in cui si incontrano Marx e il Foucault degli anni Settanta, e che procede attraverso la Parigi del Barone Haussmann e la Manchester di Engels fino a giungere alla città coloniale letta con Fanon, viene efficacemente mostrato come la “ondata pulizionista” non sia un epifenomeno delle società contemporanee, ma si inserisca in una tradizione che viene da lontano. Entrano in gioco da un lato il riprodursi sotterraneo delle “condizioni antidiluviane” del capitale, da cui emerge una “seconda storia” dello sviluppo capitalistico, dall’altro la necessità di imporre, fare interiorizzare e “naturalizzare” la legge della produzione non solo mediante lo strumento del salario, ma attraverso lo stumme Zwang, la muta coercizione che si realizza in virtù di una “pressione quotidiana” sugli individui. Una invisibile gabbia d’acciaio, quella costituita da recinzione e decoro, che struttura la modernità, un sistema costrittivo in cui seguendo Sorvegliare e punire: «la pena deve produrre gli effetti più intensi presso coloro che non hanno commesso l’errore». Decoro allora diviene lo strumento tecnico-ideologico mediante il quale viene continuamente reiscritta sui corpi la disuguaglianza di poteri, di chances, di redditi, è una “specifica tecnologia del potere” mirata a prevenire, a estirpare la stessa possibilità della infrazione della norma. Il decoro esprime sì l’orientamento morale oltre che estetico di un gruppo dominante, che si manifesta con un sentimento di riprovazione nei confronti di chi è escluso dal gruppo, ma deve al tempo stesso persuadere tutti, anche con la forza, che la recinzione/esclusione è giusta, mostrare che essa ha delle ragioni di esistere e di persistere, che è collettivamente condivisa. Non a caso Rousseau aggiungeva che il primo recintatore non solo disse “questo è mio”, ma “trovò gente così ingenua da crederci”. Il decoro non ammette scetticismo, richiede convinzione, esige un’adesione convinta.
Scenario del dispiegarsi di questo complesso apparato coercitivo è la città punitiva, che non è solo semplice sfondo, ma essa stessa dispositivo attivo: è la sistemazione della città, la sua divisione e suddivisione in parti tra loro separate e non comunicanti, abbozzata in maniera brutale e potremmo dire “spontanea” nella Manchester descritta da Engels, e affinata nell’operazione (in questo caso volontaria e consapevole) di gigantesca rimozione e ristrutturazione di Parigi orchestrata del Prefetto della Senna. La haussamanizzazione non è solo speculazione immobiliare e rinnovamento urbano, è l’epitome della modernità come capì benissimo Walter Benjamin. Ed è al tempo stesso operazione profondamente politica con cui viene scientemente deciso chi deve stare in città e chi deve essere respinto ai margini, chi può accedere a determinati stili e livelli di vita e chi no. Dietro le quinte della città borghese c’è il funzionamento di una intera parte di città come macchina che produce differenza, che moltiplica i fattori di distinzione sociale e in ultima istanza di esclusione; dietro le boutiques scintillanti del centro si muove il tentativo di trasfigurare «le contraddizioni sociali (…) in problemi di ordine pubblico» e verrebbe da aggiungere in una questione di decenza, di respingimento extra moenia della ributtante “Turchia”, termine con cui con sprezzo si indica il coacervo promiscuo delle masse popolari. Il proletario non può più muoversi a suo agio in un universo urbano pensato per il borghese, come potevano ancora fare nelle tortuose stradine del Vieux Paris le figure popolari dei Misteri di Parigi o dei Miserabili, non può circolare senza incappare in misure di controllo formale e informale, in sguardi che criticano il modo in cui è abbigliato, le sue cattive maniere, la sua scarsa igiene e il suo odore personale. Il centro della città punitiva è pieno di trappole visibili e invisibili, esistono “recinzioni percettive”, dato che le new urban enclosures sono fatte di provvedimenti ad hoc, di una specifica organizzazione della città, ma anche di interiorizzazione della differenza, di sentimento di inferiorità, di inadeguatezza. Lo “archeologo del decoro” deve quindi indagare le grandes percées come ossatura urbana di un nuovo corpo sociale da cui sono espunti i ceti inferiori, diventati population extérieure. La nuova, caotica periferia che sorge nella petite banlieue è il luogo in cui vengono confinati i perdenti, gli esclusi che non possono fare altro che ammirare dal di fuori la Parigi dell’Opera e dei cafés chantants.
Meccanismi che si ritrovano in azione in maniera pressoché analoga nella costruzione della città coloniale, la cui dimensione estetica è, ci dice Fanon, un «succedaneo della occupazione armata». La città costruita all’europea, la ville nouvelle, assedia le strutture urbane autoctone, come avviene ad Algeri per la Casbah, è pensata per bloccare e circoscrivere le espressioni abitative locali preesistenti, detta in maniera assolutistica la sua legge estetica, intimidisce con i suoi blocchi regolari, con la sua algida astrattezza razionale, con il suo ossessivo igienismo sanitario, chiude intorno all’algerino “un recinto di colpevolezza” e di inferiorizzazione. Recinto che non viene costruito solo a livello simbolico, ma opera a livello materiale, dato che agisce immediatamente sulla fisicità dei corpi obbligando nuovi percorsi, stabilendo no-go areas, e imponendo diverse prospettive e una generale riorganizzazione della spazialità. La città coloniale produce e riproduce continuamente lo spazio frammentato del colonizzato, e definisce evidenziandola drammaticamente la condizione subalterna di chi si deve muovere nello spazio pensato dal colonizzatore. Ma in fondo la città coloniale è ovunque, e, se considerate sotto il profilo delle divisioni e delle frontiere interne che le attraversano, tutte le città sono “città coloniali”, è sufficiente sostituire «allo zoning degli urbanisti (…) lo zoning del capitale e dei consumi».
Il passaggio decisivo e forse finale di questo percorso è però quello che avviene in anni recenti, con la crescente “estetizzazione del mondo”, con il definirsi di una realtà sociale in cui recinzione e decoro convergono definitivamente fino quasi a confondersi l’una con l’altro, in una dialettica per cui il decoro assume la funzione di recintare simbolicamente gli spazi della città mentre la presenza di un recinto materiale o amministrativo di per se stessa determina e garantisce la presenza o l’assenza di decoro.
In società in cui, come ha più volte ribadito Rancière, c’è una politicizzazione dell’estetica, in cui il partage, la suddivisione/ripartizione del sensibile rende visibile al contempo l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, a partire proprio dal comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti in cui ci si viene a trovare, il decoro recintante gioca un ruolo decisivo nel ribadire una partizione del sensibile da cui emerge allo stesso tempo un comune condiviso e delle parti separate. Afferma ancora Rancière che un’altra forma di ripartizione precede questo aver parte nella separatezza: quella che determina chi potrà avere parte. C’è chi decide chi può stare dentro un determinato universo di riferimento non solo estetico-simbolico ma anche materiale e chi no. Detto icasticamente con le parole di Ascari: «nella città postcoloniale e punitiva del decoro qualunque interferenza alla chiusura in un sistema di segni viene perseguita in quanto crimine di stile». Il progetto della “buona educazione degli oppressi”, come l’ha efficacemente definita Wolf Bukowski in un pamphlet recente, viene dunque qui mostrato nel suo sviluppo storico-sociale come un progetto tutt’altro che secondario e “accessorio”, ma dotato invece di una sua fondamentale vigenza e valenza. È in fondo quella tratteggiata in queste pagine una ricostruzione delle origini e dei motivi dell’autunno che discende sulle nostre società, compartimentandole e irrigidendo le relazioni tra le diverse componenti della città.
Un libro estremamente interessante quindi, per chi voglia studiare e comprendere meglio le ragioni dei provvedimenti restrittivi che stanno interessando non solo il nostro paese, e utile a indagare le dinamiche della città escludente, frutto di uno sforzo in cui si intrecciano e si accavallano più piani e più percorsi di ricerca. Un testo a tratti quasi sovraccarico di citazioni e suggestioni, in cui ricade una mole enorme e febbrile di letture, ma che pur nella sua ampia e diversificata articolazione tiene coraggiosamente ferma la bussola a puntare verso il Nord, per ora ancora remoto, della città liberata e di tutti.


 

Il lavoro culturale – 4 ggosto 2020

La bambinata e altre crudeli favole del decoro (prima parte)
di Wolf Bukowski

Il decoro come favola

I

Scrive Karl Marx, nel libro primo de Il Capitale:

«C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. […] Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle.»

Quella che Marx polemicamente illustra in forma di favola è la legittimazione ideologica della cosiddetta «accumulazione originaria». Ovvero del gesto inaugurale del «processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» che costituisce «la preistoria del capitale e del modo di produzione a esso corrispondente». Nelle righe che seguono Marx chiama questa favola ingannatrice una «bambinata» (Kinderei) e «il punto di vista dell’abbiccì infantile». La teoria che prende di mira è quella di Adam Smith e degli economisti classici, teoria che pone le origini del capitalismo (appunto l’accumulazione originaria) nella differenza morale tra due categorie di individui: da una parte la minoranza delle persone laboriose, dall’altra la maggioranza dei fannulloni. Secondo la favola chi ha (e sfrutta il lavoro altrui) è in tale posizione, essenzialmente, perché se lo è meritato… continua a leggere >

UN ASSAGGIO

Introduzione

Nel parco che attraverso ogni sera al rientro dal lavoro, fino a una decina di anni fa incontravo alcune comunità di stranieri che si davano appuntamento a fine giornata per bere o mangiare qualcosa insieme. Il parco separa i viali dalla zona a traffico limitato ed è abitualmente oltrepassato da tutti coloro che parcheggiano l’automobile per affollare il pub più frequentato della città. Poche decine di metri, allora, separavano la movida più o meno giovanile dalle panchine sulle quali stazionavano i tupperware, le carte da gioco e le bevande di un altro modo di occupare lo spazio pubblico e il cosiddetto tempo libero. Poi arrivò un’ordinanza del sindaco che vietava di bere alcolici fuori dai locali e quelle comunità di stranieri scomparvero. Scomparvero i barattoli di cibo, le donne e i bambini, mentre le bottiglie di birra sono tuttora lì, ma tra le mani di altri immigrati che invece di staccare dal lavoro vendono droga. “Questi – mi ha riferito un poliziotto che tallonavo nel corso di una retata – è già tanto se la sera arrivano a pagarsi un panino”. Che stessi prendendo parte a una retata l’ho scoperto solo dopo, mentre rincorrevo l’agente che aveva promesso di raccontarmi quale fosse il parco che vedeva lui. Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima in circostanze altrettanto particolari, sempre all’imbocco del parco, dove un tipo mi aveva scroccato una sigaretta e solo passandogliela mi ero accorto che era ammanettato. “Dia pure a me – aveva detto l’agente in tuta da ginnastica – il signore è sotto la mia custodia”. E così era andata, con il prigioniero che lo mandava affanculo e lo sbirro che lo faceva fumare, reggendogli la sigaretta e limitandosi a ripetere di tanto in tanto: “Roba da matti”.
Ho il sospetto che il poliziotto stesse osservando la stessa scena da una prospettiva più personale, ma rimango convinto che dentro quella “roba da matti” ci fosse anche il giorno in cui le ordinanze dei sindaci avevano cominciato a far sloggiare dal parco gli uomini con i tupperware dal parco. Ai tempi la chiamavano sicurezza, oggi decoro, ma in entrambi i casi veniamo abbandonati in uno spazio pubblico totalmente ridotto alla zona di transito tra un parcheggio (che sulle strade di Modena paghiamo a un’azienda privata) e il successivo consumo di qualche altra merce. Non si tratta solo di una metafora, ma della distopia concreta che agisce da tensore nell’involuzione degli spazi che viviamo in comune. E non è sempre stato così, soprattutto. Io stesso, che pure non intendo millantare una giovinezza particolarmente spericolata, posso testimoniare come fino a qualche tempo fa fosse possibile trascorrere una notte in stazione o sulla panchina di un parco senza suscitare nei passanti lo stato di allerta. Qualche riserva, certo, qualche smorfia di compatimento, ma nessuna percezione dell’insicurezza. E non è affatto vero che da allora viviamo in un ambiente più pericoloso.

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